TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA 
                           Sezione penale 
 
    Il Tribunale di Torre Annunziata, in composizione  monocratica  e
nella persona del dott. Enrico Cantieri, all'esito  della  Camera  di
consiglio del 16 giugno 2020, ha pronunciato la  seguente  ordinanza,
nel giudizio penale a carico di B.V.F., nato a........ il......,  ivi
res.te alla......., luogo del domicilio  dichiarato;  Libero  -  gia'
presente; 
    Difeso di fiducia dall'avv. Antonio De Martino del foro di  Torre
Annunziata; 
    Imputato per il reato di cui: 
        all'art. 337 codice penale, perche', a fronte dell'intervento
di personale della locale polizia municipale e,  precisamente,  degli
agenti S. E., S. A. e V. I., e dell'assistente capo  C.  M.,  accorsi
presso  il..........,  sito  a............,  in  quanto   era   stata
segnalata una lite, nonche' del successivo  intervento  di  personale
della locale Compagnia dei carabinieri, per opporsi  ad  essi  mentre
compivano un atto del loro ufficio consistente negli accertamenti  in
ordine alla cennata lite (1) , rispettivamente, nel  riportarlo  alla
calma atteso che stava inveendo  contro  due  persone  e  contro  gli
stessi  vigili  urbani,  usava  minaccia  profferendo  reiteratamente
all'indirizzo di questi ultimi le seguenti parole: «Andate  via,  non
e' successo nulla. Ve ne dovete andare tutti... Te schiatto  'a  capa
si nun te ne vaje...o schiattemi se tien 'e palle», per poi afferrare
due bottiglie di birra rompendole  e  puntando  i  cocci  contro  gli
stessi vigili urbani, dicendo ancora che dovevano andare  tutti  via,
finche', sopraggiunto il  brigadiere  dei  carabinieri  D.E.  L.,  lo
minacciava  dicendogli   che   si   doveva   allontanare   altrimenti
gliel'avrebbe  fatta  pagare  ed  usava  violenza   contro   di   lui
strattonandolo piu' volte  fino  a  rovinare  a  terra  entrambi,  ed
ancora, una volta  rialzato,  usava  ulteriore  violenta  contro  gli
operanti sferrando calci; 
        in...... novembre 2019 
        per  sollevare  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 16, comma 1, lettera b) del decreto-legge 14  giugno  2019,
n. 53, come convertito con modificazioni nella legge 8  agosto  2019,
n. 77, nella parte in  cui,  modificando  l'art.  131-bis,  comma  2,
codice penale, prevede che  l'offesa  non  puo'  essere  ritenuta  di
particolare tenuita' nel caso di  cui  all'art.  337  codice  penale,
quando il reato e' commesso nei confronti di  un  pubblico  ufficiale
nell'esercizio delle proprie funzioni, per violazione degli  articoli
3, 25 comma 2, 27, commi 1 e 3, 77 della Costituzione. 
1. Svolgimento del processo. 
    All'udienza del 2 novembre 2019 B. V. F. e' stato  presentato  in
stato  di  arresto  da  personale  della  Compagnia  dei  Carabinieri
di........ per la convalida ed il contestuale giudizio  direttissimo,
sulla base della contestazione formulata dal pubblico ministero. 
    Sentita la relazione orale dell'agente di polizia giudiziaria che
aveva proceduto  all'arresto,  sentito  l'arrestato,  il  giudice  ha
convalidato l'arresto e ha rigettato la richiesta di misura cautelare
formulata dal pubblico ministero per carenza di  esigenze  cautelari.
Dopo la convalida,  il  Giudice  ha  quindi  disposto  procedersi  al
giudizio  direttissimo,  avvisando  l'imputato  della   facolta'   di
chiedere la definizione del giudizio con un rito  alternativo,  salva
in ogni caso la facolta' di chiedere un termine a difesa. L'imputato,
assistito dal proprio difensore, ha chiesto un termine a difesa. 
    Alla successiva udienza del 10 dicembre 2019 il difensore, munito
di procura speciale, ha chiesto la  definizione  del  giudizio  nelle
forme del rito abbreviato.  Il  Tribunale  ha  ammesso  il  rito,  ha
acquisito il fascicolo del pubblico ministero e ha  rinviato  per  la
discussione. 
    L'udienza del 3 marzo 2020, fissata per la discussione, e'  stata
rinviata d'ufficio, su disposizione della Presidenza  del  Tribunale,
per ragioni di sanita' pubblica; quella successiva, fissata per il  3
aprile  2020,  e'  stata  rinviata  ai   sensi   dell'art.   83   del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18. 
    All'udienza del 16 giugno 2020 il Tribunale ha invitato le  parti
a formulare le rispettive conclusioni e si e' ritirato in  Camera  di
consiglio. 
    All'esito  della  stessa,  prima  di  pronunciarsi   nel   merito
dell'imputazione, ritiene il tribunale di dover  sollevare  d'ufficio
la  questione  di  legittimita'  costituzionale  che  di  seguito  si
esporra', e dunque sospendere il procedimento e trasmettere gli  atti
alla Corte costituzionale per la sua risoluzione. 
2. La rilevanza della questione. 
2.1. Il fatto storico F. 
    Dagli atti contenuti nel fascicolo del pubblico  ministero  e  da
quelli inerenti all'udienza di convalida, utilizzabili ai fini  della
decisione in  virtu'  del  rito  prescelto  dall'imputato,  il  fatto
sottoposto al vaglio di questo Tribunale deve essere ricostruito  nei
termini che seguono. 
    In data novembre 2019, alle  ore  20,25  circa,  personale  della
polizia municipale di........... nel transitare  al...........  della
medesima citta' a bordo di un'auto di servizio, fu avvicinato  da  un
uomo, il quale riferi'  che,  all'interno  del  bar  «Viviani»,  poco
distante, era in corso una rissa. Una  volta  entrati  nel  bar,  gli
agenti tuttavia trovarono soltanto il barista  e  un  ragazzo  -  poi
identificato nell'odierno imputato B. V. F. - che,  con  escoriazioni
ed ecchimosi al volto, camminava nervosamente in  evidente  stato  di
agitazione. Quindi, gli operatori gli si avvicinarono per  chiedergli
cosa fosse successo, ma il F. , con modi  bruschi,  intimo'  loro  di
andare via; infastidito dall'insistenza dei vigili  urbani,  egli  li
minaccio' dicendo reiteratamente: «andate via, non e' successo  nulla
e ve ne dovete andare tutti... te schiatto  'a  capa  si  nun  te  ne
vaje...o  schiatteme  si  tien'  'e  ppalle»;   quindi,   prese   dal
frigorifero due bottiglie di birra, le ruppe privandole del fondo,  e
le agito' all'indirizzo degli operanti, continuando a minacciarli con
analoghe espressioni. Quindi, riuscito ad uscire dal bar, sempre  con
le bottiglie in mano, invei'  contro  i  numerosi  presenti,  inclusi
alcuni suoi parenti che nel frattempo erano accorsi e avevano provato
ad invitarlo alla calma, per poi lanciare in aria due sedie e i cocci
delle bottiglie che aveva in mano. 
    In  quel  frangente  giunse  una  volante  della  Compagnia   dei
Carabinieri di  Castellammare  di  Stabia,  chiamata  in  ausilio,  e
composta dall'App. M. A. e dal Brig. L. D. A. 
    Poiche', peraltro, vi era molto traffico, l' A. , rimase in auto,
e il D.E. si incammino' a piedi: una volta giunto al  bar.....,  egli
noto' il F. in stato di forte agitazione  che  inveiva  all'indirizzo
degli astanti che provavano a calmarlo. Quindi,  il  D.E.  ,  gli  si
avvicino' e provo' a bloccarlo, ma il  F.  dapprima  gli  intimo'  di
allontanarsi,  minacciandolo  che  altrimenti  'gliel'avrebbe   fatta
pagare', e poi, una volta che  il  D.E.  lo  ebbe  immobilizzato,  lo
spinse e lo strattono', sicche' entrambi caddero  a  terra.  In  quel
momento sopraggiunse l'App. A. a bordo dell'auto di servizio, insieme
con due operatori del reparto motociclisti della polizia  municipale:
tutti insieme riuscirono a bloccare ed ammanettare il F. , nonostante
questi sferrasse calci all'indirizzo  degli  operanti  per  sottrarsi
alla presa. 
    Il F. fu dunque portato presso gli  Uffici  della  Compagnia  per
l'identificazione,  ove  si  calmo'  immediatamente  e   mostro'   un
atteggiamento ampiamente collaborativo; fu accertato  che  lo  stesso
era sottoposto alla misura alternativa dell'affidamento in  prova  ai
servizi sociali, e fu arrestato per il reato di cui all'art. 337 c.p. 
    Il barista C. A., in  sede  di  sommarie  informazioni,  oltre  a
confermare la versione dell'accaduto riversata negli atti di  polizia
giudiziaria, ha dichiarato che l'intervento  dei  vigili  urbani  era
stato determinato dal fatto  che  tra  il  F.  -  da  lui  conosciuto
soltanto di vista - e un altro uomo che, insieme alla propria moglie,
si  trovava  all'esterno  del  bar,  era   scoppiata   all'improvviso
un'animata e turbolenta discussione. 
    Il F. , sottopostosi ad interrogatorio, ha ammesso pienamente gli
addebiti, confermando la versione  resa  dagli  operanti  di  polizia
giudiziaria e il diverbio occorso con l'uomo e la  donna  all'esterno
del bar poco prima  dell'intervento  dei  vigili.  Egli  ha  peraltro
spiegato che la sua veemente e spropositata  reazione  nei  confronti
della polizia giudiziaria intervenuta  era  stata  determinata  dalla
rabbia di essersi sentito ingiustamente  accusato  ed  'etichettato',
dal momento che i  vigili  avevano  concentrato  la  loro  attenzione
esclusivamente  di  lui,  tentando  di  fermarlo  e   immobilizzarlo,
soltanto in ragione di un pregiudizio personale, ma non avevano fatto
altrettanto nei confronti dell'uomo con cui aveva avuto poco prima la
discussione, che era oltretutto  sfociata  in  un'aggressione  fisica
reciproca,  tant'e'  che  lui  stesso  aveva  riportato  ecchimosi  e
tumefazioni in volto. 
2.2. La qualificazione giuridica del fatto ai sensi della fattispecie
di cui all'art. 337 c.p. 
    Ritiene il Tribunale che il fatto,  cosi  come  ricostruito,  sia
pienamente  sussumibile  nella  fattispecie  incriminatrice  di   cui
all'art. 337 del codice penale ipotizzata dall'Ufficio  del  pubblico
ministero. 
    Quanto alla fattispecie oggettiva del delitto in  questione,  non
vi e' dubbio che la frase «te schiatto 'a capa si nun  te  ne  vaje»,
proferita  all'indirizzo  degli  agenti  della   polizia   municipale
intervenuti per sedare la lite,  e  quella  'te  la  faccio  pagare',
indirizzata al Brig.  dei  Carabinieri  -  D.E.  (pubblici  ufficiali
nell'esercizio delle proprie funzioni ai sensi  dell'art.  357  c.p.)
siano da qualificarsi quali  minacce;  ne'  vi  e'  dubbio  che  tali
espressioni,  per  essere  state  proferite  in  una  situazione   di
eccezionale   concitazione   da   una   persona    evidentemente    e
particolarmente agitata e quantomeno in apparenza  violenta  (benche'
caratterizzate,  come  subito  si  dira',  da  modestissimo   rilievo
offensivo) fossero dotate di quel sufficiente grado di credibilita' e
serieta' da rientrare nella nozione di minaccia penalmente  rilevante
(sul punto cfr., ex multis, Cassazione  pen.,  sez.  2,  sentenza  n.
21974/2017); al contempo risulta parimenti provato che  il  F.  abbia
poco dopo strattonato e spintonato il Brig. D.E.  ,  atti  senz'altro
qualificabili  in  termini  di  violenza  (sia   pur   anch'essi   di
modestissima entita'). Tali minacce e  violenze  sono  state  inoltre
poste in essere all'indirizzo dei suddetti pubblici ufficiali  mentre
essi compievano atti del loro ufficio,  consistenti  nel  cercare  di
riportarlo alla calma e di porre fine al  suo  stato  di  agitazione,
nell'accertare quanto accaduto poco  prima  relativamente  alla  lite
segnalata e nell'identificare le persone coinvolte, anche al fine  di
acquisire eventuali notizie  di  reato  e  compiere  gli  adempimenti
conseguenti, ai sensi degli articoli 55 e 347 c.p.p. 
    Sussiste, infine, anche una concreta  offesa  ai  beni  giuridici
tutelati dalla fattispecie incriminatrice in questione, atteso che le
condotte del F. hanno compresso, sia pure per un ristrettissimo lasso
temporale, il regolare e sereno  esercizio  della  funzione  pubblica
svolta dai pubblici ufficiali destinatari  della  condotta  (su  tale
bene giuridico quale oggetto di tutela del delitto  di  cui  all'art.
337 del codice penale cfr. Cassazione pen.,  Sez.  un.,  sentenza  n.
40981/2018), ritardando, seppur di poco, e tendendo piu'  gravoso  il
compimento  degli  atti  del  loro  ufficio;  e  cio'   mediante   la
coartazione, sia pur momentanea, di quella libera  autodeterminazione
delle persone fisiche preposte all'esercizio della pubblica  funzione
(di polizia di prevenzione e, al contempo, di  polizia  giudiziaria),
che  del  regolare  funzionamento  della   pubblica   amministrazione
costituisce parte integrante (ancora, in  termini,  Cassazione  pen.,
Sez. un., sez. ult. cit). 
    Quanto alla fattispecie soggettiva, sussiste  il  dolo  specifico
richiesto, giacche' il F. non  soltanto  era  pienamente  consapevole
della qualita' di pubblici ufficiali degli  operanti,  che  erano  in
divisa, ma ha anche volontariamente agito -  come  gia'  detto  -  al
precipuo fine di opporsi ai loro atti. 
    Dagli atti utilizzabili  ai  fini  della  decisione  non  emerge,
infine, che il descritto comportamento abbia costituito una  reazione
ad eventuali atti arbitrari degli stessi pubblici ufficiali,  sicche'
non  sussistono  i  presupposti  per  la  riconduzione  dello  stesso
nell'alveo dell'esimente di cui all'art. 393-bis c.p. 
    Osserva inoltre il Tribunale che, pur potendosi considerare unica
l'azione posta in essere dal F.  in  ragione  dell'omogeneita'  degli
atti, dell'unicita' di contesto spazio-temporale in  cui  gli  stessi
sono stati posti in essere e del fine perseguito  dall'agente  [cfr.,
proprio in tema di resistenza a pubblico ufficiale, Cassazione  pen.,
Sez.  un.,  sentenza  n.  40981/2018,  in  cui,  aderendo  alla  tesi
dottrinale del concetto 'normativo-sociale' di azione, si afferma che
«Nel concetto di azione unica vanno ricompresi tanto i  casi  in  cui
l'azione si risolva  in  un  «atto  unico»  (conforme  alla  condotta
normativamente prevista), quanto i casi in cui l'azione  si  realizzi
attraverso il compimento  di  una  «pluralita'  di  atti»  che  siano
contestuali nello spazio e nel tempo  ed  abbiano  fine  unico],  due
devono ritenersi i fatti-reato configurabili nella specie, e  (al  di
la' dell'irrilevante impiego  del  sostantivo  «reato»  al  singolare
anziche' al plurale) in fatto descritti nella  complessa  imputazione
formulata  dall'Ufficio  del  pubblico   ministero:   infatti,   come
affermato  dalle  Sezioni  unite  della  Cassazione,  con   decisione
pienamente condivisa dal tribunale, «In tema di resistenza a pubblico
ufficiale, integra un concorso formale di reati,  a  norma  dell'art.
81, comma primo, codice penale, la  condotta  di  chi,  nel  medesimo
contesto fattuale,  usa  violenza  o  minaccia  per  opporsi  a  piu'
pubblici ufficiali  o  incaricati  di  un  pubblico  servizio  mentre
compiono un atto del loro ufficio o servizio» (Cass. pen., Sez.  un.,
sentenza ult. cit.). 
2.3. La sussistenza, in concreto, dei presupposti  della  particolare
tenuita' dell'offesa e della non abitualita' del comportamento  (art.
131-bis c.p.). 
    Nondimeno, ritiene il Tribunale che sussistano nel caso di specie
gli indici-criteri della particolare tenuita' dell'offesa e della non
abitualita' del  comportamento  richiesti  dall'art.  131-bis  codice
penale ai fini del riconoscimento  della  causa  di  non  punibilita'
della particolare tenuita' del fitto ivi prevista. 
    Quanto al primo indice, di natura  oggettiva,  della  particolare
tenuita' dell'offesa, va infatti rilevato che il  danno  arrecato  al
regolare funzionamento della pubblica amministrazione, bene giuridico
tutelato dalla fattispecie incriminatrice di  cui  all'art.  337  del
codice penale, pur sussistente secondo quanto si e'  rilevato  supra,
deve al contempo considerarsi particolarmente esiguo: infatti, sia le
minacce rivolte in un primo momento agli agenti della polizia locale,
sia   quelle   successivamente   indirizzate   al   brigadiere   D.A.
(rispettivamente «te schiatto 'a capa»  e  'te  la  faccio  pagare'),
analogamente alla modestissima violenza commessa ai suoi  danni  (uno
spintone), erano dotate di una carica  intimidatoria  particolarmente
esigua,  hanno  determinato  un  soltanto  momentaneo  e   transeunte
turbamento della libera autodeterminazione dei pubblici ufficiali cui
sono  state  rivolte  e,   di   conseguenza,   complessivamente   una
modestissima compromissione del regolare svolgimento  della  pubblica
funzione (di polizia di prevenzione e  di  polizia  giudiziaria):  lo
stesso ufficiale di polizia giudiziaria che ha relazionato in  merito
all'arresto ha infatti dichiarato che il F. e'  subito  tornato  alla
calma, sicche' il ritardo e la maggiore  difficolta'  nel  compimento
degli atti d'ufficio sono stati davvero minimi, poiche' egli e' stato
immediatamente immobilizzato dai Carabinieri intervenuti  a  sostegno
dei vigili, e condotto presso gli  uffici  della  Compagnia  per  gli
accertamenti di rito, all'esito dei quali e' stato tratto in arresto. 
    Analogamente,  non   appaiono   particolarmente   allarmanti   le
modalita' della  condotta,  e  cio'  alla  luce  sia  del  fatto  che
l'obiettivo principale del F.  non  erano  gli  operanti,  bensi'  la
persona con cui poco prima aveva avuto una lite, sia del fatto che  -
come spiegato dallo stesso in sede di interrogatorio di  convalida  -
si era trattato di un accesso di rabbia  dovuto  alla  sensazione  di
star  subendo  un'ingiusta  discriminazione  da  parte  delle   forze
dell'ordine, che si erano concentrate esclusivamente su di lui e  non
anche sull'altro uomo con cui egli poco prima aveva avuto la  lite  e
da cui pure era stato aggredito. La stessa circostanza, pur descritta
nell'imputazione, secondo cui egli aveva puntato i cocci di bottiglia
all'indirizzo  degli  operanti  per  minacciarli,  si   e'   rivelata
infondata, desumendosi infatti dagli atti  e  dalla  relazione  orale
dell'ufficiale di polizia giudiziaria che egli,  lungi  dal  puntarli
contro qualcuno, li agitava in aria gesticolando in  modo  concitato.
D'altro canto, come si e' gia' detto, una volta immobilizzato, il  F.
ha assunto un atteggiamento di ampia e totale collaborazione con  gli
operanti, cui egli - una volta portato presso i relativi uffici -  ha
subito spiegato il motivo della sua rabbia. 
    Non sussiste, dunque,  neppure  alcuno  degli  indici  presuntivi
di........  comma  2,  codice  penale,   idonei   ad   escludere   la
qualificazione dell'offesa in termini di particolare tenuita' (motivi
abietti o futili, crudelta' o sevizie, minorata difesa della vittima,
eventi di morte o lesioni gravissime). 
    Sotto tale primo profilo deve ritenersi, in definitiva, che si e'
trattato di una reazione scomposta e sproporzionata di un soggetto in
evidente stato di alterazione, di breve durata e di scarsa entita', e
che dunque si e' risolta  in  un'offesa  decisamente  lieve  ai  beni
giuridici tutelati dalla fattispecie criminosa in questione. 
    Quanto  al  secondo  indice,  di  natura  soggettiva,  della  non
abitualita' del comportamento, non risulta agli atti che il F.  abbia
gia' in passato commesso condotte della medesima indole, o comunque a
questa analoghe o assimilabili, ne' tantomeno abbia  gia'  altrimenti
beneficiato della causa di non punibilita' di  cui  all'art.  131-bis
del codice penale. Non  risultano  carichi  pendenti,  ma  -  secondo
quanto  dichiarato  dallo  stesso  arrestato  in  sede   di   domande
preliminari all'interrogatorio ex articoli 66 del codice di procedura
penale e 21 disposizioni di attuazione del codice di procedura penale
(egli risulta infatti  incensurato  dal  certificato  del  casellario
giudiziario) - soltanto una condanna definitiva per il delitto di cui
all'art. 73, decreto del Presidente  della  Repubblica  n.  309/1990,
dunque non ostativa ai fini che in questa sede interessano. 
    Ne' osta alla qualificazione in termini di  non  abitualita'  del
comportamento la disposizione  di  cui  all'art.  131-bis,  comma  3,
codice penale, secondo cui «Il comportamento e' abituale nel caso  in
cui   l'autore...   abbia   commesso   piu'   reati   della    stessa
indole...nonche' nel caso in cui si tratti di reati  che  abbiano  ad
oggetto condotte plurime, abituali o reiterate». 
    Ed  invero,  quanto  all'elemento  ostativo   della   pluralita',
abitualita' o reiterazione delle condotte, si e' gia'  osservato  che
nel caso di specie, pur al cospetto di plurimi  atti  di  minaccia  e
violenza, deve ritenersi sussistente non gia' una pluralita',  bensi'
un'«unicita' di azione» - pur composta da piu' atti -  configurandosi
cosi' un'ipotesi di concorso formale, e non gia' materiale, di reati. 
    Quanto, invece, all'ulteriore elemento ostativo della  pluralita'
di  reati,  per  definizione  intrinseca  all'ipotesi  del   concorso
formale, condivide  pienamente  il  Tribunale  quell'orientamento  di
legittimita' secondo cui «La dichiarazione  di  non  punibilita'  per
particolar e tenuita' del fatto non e'  preclusa  dalla  presenza  di
piu' reati legati dal vincolo del concorso  formale,  poiche'  questo
istituto non implica l'abitualita' del  comportamento...  ed  invero,
«...il fatto che la disposizione rivolga l'attenzione al soggetto che
abbia «commesso piu' reati» consentirebbe di  includere  il  concorso
formale se si intendesse l'espressione  come  riferita  al  risultato
della condotta ed, invece,  di  escluderlo  se  si  intende  riferito
all'unica azione od omissione che ha poi comportato la violazione  di
diverse  disposizioni  di  legge,  ovvero  la  commissione  di   piu'
violazioni della medesima disposizione. Tale ultima soluzione risulta
maggiormente plausibile, considerando  che  la  stessa  conformazione
dell'art. 81 cod pen. mal si  attaglia  a  situazioni,  quali  quelle
considerate dal terzo comma  dell'art.  131-bis  cod.  pen.,  che  il
legislatore considera comunque sintomatiche di quella  «abitualita'»,
seppure  largamente  intesa,   impeditiva   della   declaratoria   di
particolare tenuita', difficilmente confrontabile  con  una  condotta
unica, seppure produttiva di plurime violazioni di legge» (cfr.,  per
tutte, Cassazione pen., sez. 3, sentenza n. 47039/2015). 
    In altri termini, la ricorrenza di un concorso formale tra reati,
in quanto espressione di un'unicita' di risoluzione criminosa, non e'
di  per  se'  condizione  ostativa  alla  configurazione  della   non
abitualita' del comportamento, sotto il profilo della reiterazione di
«reati della stessa indole», di cui all'art. 131-bis, comma 3, codice
penale, dovendosi per  tale  intendere  la  reiterazione  in  diversi
contesti del medesimo reato, frutto di distinte risoluzioni criminose
dell'agente: al contrario, casi come quello per cui si  procede  sono
caratterizzati   da   un'unicita'   di   azione   e    di    contesto
spazio-temporale  degli  atti  che  la  compongono,   e   dunque   da
un'unitarieta' del disvalore espresso  dai  piu'  reati  in  concorso
formale  tra  loro.  Il  disvalore   connesso   ai   reati   commessi
dall'imputato attiene ad una porzione fattuale che, sebbene scomposta
secondo il giudizio normativa dell'ordinamento in diverse ipotesi  di
reato, appare unitaria nella dinamica concreta degli eventi, e non e'
tale da fondare un giudizio di abitualita' nel reato ostativo ad  una
pronuncia ex art. 131-bis c.p. 
    In definitiva sussistono, nel caso di specie, tutti i presupposti
normativi che  consentirebbero  l'applicazione  della  causa  di  non
punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice  penale,  giacche'  il
delitto di cui all'art. 337 del codice  penale  e'  punito  con  pena
detentiva non superiore nel massimo a cinque  anni,  l'offesa  e'  di
particolare tenuita' e il comportamento non e' abituale. 
2.4. La preclusione all'applicazione della causa di  non  punibilita'
della particolare tenuita' del fatto al delitto di cui  all'art.  337
del codice penale, introdotta dall'art. 16, comma 1, lettera  b)  del
decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53,  come  convertito  e  modificato
dalla legge 8 agosto 2019, n. 77. 
    L'applicazione della causa di non  punibilita'  in  questione  al
caso di specie e' tuttavia preclusa dal disposto  dell'art.  131-bis,
comma 2, codice penale, come modificato da ultimo dall'art. 16, comma
1, lettera b) del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, convertito con
modificazioni nella legge 8 agosto 2019, n. 77, nella  parte  in  cui
prevede  che  «L'offesa  non  puo'  altresi'   essere   ritenuta   di
particolare tenuita'...nei casi di cui agli articoli...337  ...quando
il  reato  e'  commesso  nei  confronti  di  un  pubblico   ufficiale
nell'esercizio delle proprie funzioni». 
    Tale disposizione, precludendo in radice la possibilita'  che  il
giudice consideri l'offesa arrecata in  concreto  da  un  fatto-reato
sussumibile nella fattispecie - tra le altre - di  cui  all'art.  337
del codice penale, introduce evidentemente una  presunzione  assoluta
di non particolare tenuita' dell'offesa ulteriore  (e  diversa,  come
pure meglio si dira'), rispetto a quelle  supra  evidenziate  e  gia'
previste al comma 2 dell'art. 131-bis del  codice  penale,  allorche'
tale reato sia commesso nei confronti di un pubblico ufficiale (resta
ferma, dunque, la possibilita' di tale  configurazione  nel  caso  di
incaricato di pubblico servizio). 
    In altri termini, con tale disposizione il legislatore ha  inteso
privare  il  giudice  di  ogni  margine  di  discrezionalita'   nella
valutazione dell'offesa, impedendogli, sempre  e  in  ogni  caso,  di
ritenere di particolare tenuita' l'offesa arrecata dal delitto di cui
all'art. 337 del codice penale, commesso nei confronti di un pubblico
ufficiale,   in   ogni   sua   possibile   modalita'   concreta    di
manifestazione. 
    Per  tali  ragioni,  e'  in  definitiva  rilevante  nel  presente
giudizio  la  questione  di  legittimita'  costituzionale   di   tale
disposizione,   giacche'   questa   costituisce   l'unico    ostacolo
all'applicazione della causa  di  non  punibilita'  di  cui  all'art.
131-bis codice penale al fatto per cui si procede ove questa  venisse
dichiarata costituzionalmente illegittima, il fatto posto  in  essere
dal F. , per le ragioni in precedenza addotte, potrebbe dunque essere
senz'altro considerato di particolare tenuita'. 
2.4.1.  Impossibilita'  di   un'interpretazione   alternativa   della
disposizione di legge censurata. 
    E' appena il  caso  di  rilevare,  infine,  che  la  chiarezza  e
l'univoca  perentorieta'  della  disposizione   non   ne   consentono
un'interpretazione diversa da quella qui prospettata e  immune  dalle
censure che verranno di seguito esposte: in altri termini,  l'impiego
del verbo al modo indicativo e del verbo  'potere',  preceduto  dalla
locuzione 'non' costituisce un indice evidente della natura  assoluta
e non soltanto relativa della presunzione,  che  dunque  non  ammette
eccezioni e non puo' essere superata in via interpretativa. 
3. La non manifesta infondatezza della questione. 
    Tanto premesso in punto di rilevanza della questione, ritiene  il
Tribunale che la disposizione in esame violi gli articoli  77,  comma
2, 3, 25, comma 2, 27, commi 1 e 3 della Costituzione per motivi  che
di seguito si esporranno. 
3.1. Violazione dell'art. 77, comma 2, della Costituzione. 
3.1.1. Innanzitutto, la disposizione censurata  appare  in  contrasto
con l'art. 77, comma 2, della Costituzione in quanto non e' omogenea,
quanto ad oggetto e finalita', rispetto al contenuto  originario  del
decreto-legge nel cui corpo e' stata inserita. 
    La presunzione di non particolare tenuita' dell'offesa  nei  casi
di cui all'art. 337 del codice penale  e'  stata  infatti  introdotta
soltanto in sede di conversione del decreto-legge 14 giugno 2019,  n.
53, approvato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica:
l'originaria formulazione dell'art.  16,  comma  1,  lettera  b)  del
provvedimento si limitava, infatti, ad escludere la  configurabilita'
della causa di non punibilita' in questione «...quando si procede per
delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni  e  sei
mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni
sportive». 
    Orbene, com'e' noto, i limiti di emendabilita' del  decreto-legge
ad opera della legge di conversione sono stati tracciati, soprattutto
negli ultimi anni, da  una  copiosa  e  significativa  giurisprudenza
costituzionale. 
    La  Corte  costituzionale,  dopo  aver  rivendicato  la   propria
competenza  a  sindacare  la  sussistenza  (sia   pure   nei   limiti
dell'«evidente carenza») dei presupposti di straordinaria  necessita'
e urgenza di cui all'art. 77, comma 2, della  Costituzione  (sentenza
n.  29  del  1995),  ha  affermato  che  uno  dei  principali  indici
sintomatici dell'assenza di tali presupposti e'  rappresentato  dalla
disomogeneita' materiale e/o funzionale tra le disposizioni contenute
in un decreto-legge: infatti, «la urgente necessita'  del  provvedere
puo' riguardare una  pluralita'  di  norme  accomunate  dalla  natura
unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall'intento di
fronteggiare situazioni  straordinarie  complesse  e  variegate,  che
richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti  quindi  a
materie diverse, ma indirizzati all'unico scopo di approntare  rimedi
urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare»;  da  cio'
deriva che «la semplice immissione di una disposizione nel  corpo  di
un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non  vale
a trasmettere, per da' solo, alla stessa  il  carattere  da'  urgenza
proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza  di
oggetto o da' finalita'»;  al  contrario,  «l'inserimento  da'  norme
eterogenee all'oggetto o alla finalita' del decreto spezza il  legame
logico-giuridico tra la valutazione fatta  dal  Governo  dell'urgenza
del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge», di
cui alla norma  costituzionale  citata.  Il  presupposto  del  "caso"
straordinario di necessita' e urgenza inerisce sempre e  soltanto  al
provvedimento inteso come un tutto unitario, atto  normativa  fornito
di intrinseca coerenza, anche se articolato e  differenziato  al  suo
interno»: in tal caso, il  decreto-legge,  «inteso  come  insieme  di
disposizioni omogenee per la materia o per lo  scopo»,  si  trasforma
«in una congerie di norme  assemblate  soltanto  da  mera  casualita'
temporale» (sentenza n. 22 del 2012; v. pure gia' sentenza n. 171 del
2007 e n. 128 del 2008). 
    Per le medesime ragioni la Corte, superando un proprio precedente
e meno restrittivo orientamento, ha poi affermato  che  il  requisito
della omogeneita' deve essere rispettato non soltanto dal decreto, ma
anche dalla legge di conversione; quest'ultima, infatti, si configura
quale «legge a competenza tipica» (sentenza n. 32 del  2014),  attesa
l'esistenza  di  «un   nesso   di   interrelazione   funzionale   tra
decreto-legge, formato dal Governo ed emanato  dal  Presidente  della
Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento
di approvazione  peculiare  rispetto  a  quello  ordinario»  (ancora,
sentenza   n.   22   del   2012),   la   cui   lesione,   determinata
dall'inserimento  nella  legge  di  conversione  di  norme   estranee
all'oggetto o alla finalita' del decreto-legge, costituisce non  gia'
un sintomo dell'assenza dei  presupposti  di  necessita'  e  urgenza,
bensi' un'autonoma  violazione  dell'art.  77,  comma  2,  Cost.  che
scaturisce dall'uso illegittimo, da parte del Parlamento, del  potere
di conversione che la Costituzione gli attribuisce. 
    Piu' specificamente, la Corte  ha  osservato  che  «La  legge  di
conversione e'  fonte  funzionalizzata  alla  stabilizzazione  di  un
provvedimento avente forza  di  legge  ed  e'  caratterizzata  da  un
procedimento di approvazione  peculiare  e  semplificato  rispetto  a
quello ordinario (sentenza n. 247 del 2019): essa, pertanto,  essendo
una «legge funzionalizzata  e  specializzata»...non  puo'  aprirsi  a
qualsiasi  contenuto  ulteriore,  anche  nel  caso  di  provvedimenti
governativi ab origine eterogenei (ordinanza  n.  34  del  2013),  ma
ammette  soltanto  disposizioni  che  siano   coerenti   con   quelle
originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di
vista funzionale e finalistico» (sentenza n. 32 del 2014). 
    Sicche', se il legame essenziale  tra  decretazione  d'urgenza  e
potere di conversione viene spezzato «...la violazione dell'art.  77,
secondo comma, della Costituzione,  non  deriva  dalla  mancanza  dei
presupposti di necessita' e urgenza per le norme eterogenee aggiunte,
che, proprio per essere  estranee  e  inserite  successivamente,  non
possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del
2010), ma per l'uso improprio, da parte del Parlamento, di un  potere
che la  Costituzione  gli  attribuisce,  con  speciali  modalita'  di
procedura, allo scopo tipico  di  convertire,  o  non,  in  legge  un
decreto-legge» (ancora, sentenza n. 22 del 2012; ma v. pure ordinanza
n. 34 del 2013 e sentenza n. 32 del 2014); lo scrutinio relativo alla
evidente carenza, o meno, di tali  presupposti  rispetto  alle  nuove
norme, rilevera' invece, in via subordinata, soltanto nel caso in cui
le norme «...aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge...
non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione
d'urgenza; mentre tale valutazione non e' richiesta quando  la  norma
aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto» (sentenza  n.  355
del 2010). 
    Tanto premesso in via  generale,  a  giudizio  del  Tribunale  la
presunzione assoluta di non  punibilita'  in  questa  sede  cesurata,
introdotta soltanto in sede  di  conversione  con  l'aggiunta  di  un
periodo finale all'art. 16, comma 1, lettera  b)  del  decreto-legge,
risulta manifestamente estranea, sia dal punto di vista  oggettivo  e
materiale, sia dal  punto  di  vista  funzionale  e  finalistico,  al
contenuto originario del provvedimento. 
    In proposito va rilevato che il  decreto-legge  in  questione  e'
composto di tre capi: il capo I  (articoli  da  1  a  7)  concernente
«Disposizioni  urgenti  in  materia  di  contrasto   all'immigrazione
illegale e di ordine e sicurezza pubblica»; il capo II (articoli da 8
a  12)  concernente  «Disposizioni  urgenti  per   il   potenziamento
dell'efficacia dell'azione amministrativa a supporto delle  politiche
di sicurezza»; il capo III, che piu' da vicino ci  occupa  in  questa
sede (articoli da 13 a 18), concernente infine «Disposizioni  urgenti
in materia di contrasto alla violenza in occasione di  manifestazioni
sportive». 
    Ebbene, come gia' e' agevole evincersi dalle relative rubriche, i
primi due capi non  contenevano  (e  tuttora  non  contengono)  alcun
riferimento all'art. 131-bis del codice penale  o  al  reato  di  cui
all'art. 337 del codice penale: rispetto ad essi la  disposizione  in
questa sede censurata risulta del tutto estranea  sia  dal  punto  di
vista del contenuto, sia dal punto  di  vista  delle  finalita',  non
essendo,  per  la  radicale  eterogeneita'  delle  materie  trattate,
neppure  astrattamente  ipotizzabile  un  qualsivoglia   collegamento
contenutistico e/o finalistico. 
    L'ultimo capo comprende invece alcune disposizioni in materia  di
violenze commesse in occasione di  manifestazioni  sportive  ispirate
dalla comune ratio politico-criminale di  inasprirne  il  trattamento
giuridico. In particolare,  e  a  titolo  meramente  esemplificativo,
l'art. 13 interviene sulla legge n. 401/1989 e sul  decreto-legge  n.
8/2007, specificando ed ampliando i presupposti applicativi del  c.d.
DASPO; l'art. 14  modifica  l'art.  77  del  decreto  legislativo  n.
159/2011 (c.d. codice  antimafia),  estendendo  l'applicabilita'  del
fermo di indiziato di delitto ai reati  commessi  in  occasione  o  a
causa di manifestazioni sportive, a prescindere dai  limiti  edittali
delle   singole   fattispecie   ipotizzabili;   l'art.    15    rende
definitivamente permanente la disciplina del c.d. «arresto differito»
per i reati  commessi  in  occasione  o  a  causa  di  manifestazioni
sportive  previsto  dal  decreto-legge  n.  14/2017,  convertito  con
modificazioni nella legge n. 48/2017; l'art. 17 estende  l'ambito  di
applicabilita' delle sanzioni amministrative  previste  per  il  c.d.
bagarinaggio. 
    Proprio in questo identico  ambito  si  muoveva,  effettivamente,
l'art. 16 nella sua  originaria  formulazione,  rubricato  «Modifiche
agli articoli 61 e 139-bis del codice penale», in quanto, da un lato,
intervenendo sull'art. 61 codice  penale,  introduceva  al  nuovo  n.
11-septies)  codice  penale  la  circostanza  aggravante  comune  del
«l'avere commesso il fatto in occasione o a causa  di  manifestazioni
sportive o durante i trasferimenti da o verso  il  luoghi  in  cui  i
svolgono dette manifestazioni»; dall'altro, come  si  e'  anticipato,
intervenendo  sull'art.  131-bis  del  codice   penale,   introduceva
un'ulteriore  presunzione  assoluta  di  non   particolare   tenuita'
dell'offesa «...quando si procede per delitti, puniti  con  una  pena
superiore nel massimo a due anni e sei mesi di  reclusione,  commessi
in occasione o a  causa  di  manifestazioni  sportive»:  entrambe  le
disposizioni, dunque,  si  limitavano  ad  inasprire  il  trattamento
sanzionatorio degli illeciti commessi  in  occasione  o  a  causa  di
manifestazioni  sportive,  esattamente  come  le  altre  disposizioni
contenute nel medesimo capo. 
    Orbene, a giudizio del  Tribunale  tale  disposizione,  che  pure
faceva in qualche  modo  riferimento  all'istituto  di  cui  all'art.
131-bis  codice  penale,  non  e'  sufficiente   a   determinare   un
collegamento  tra  il  contenuto  originario   del   decreto   e   la
disposizione  in  questa  sede  censurata  tale  da   assicurare   il
necessario requisito di omogeneita',  giacche'  quest'ultima  non  si
riferisce soltanto agli illeciti commessi in occasione o a  causa  di
manifestazioni sportive, ma e' applicabile a  qualsivoglia  forma  di
manifestazione del reato di cui all'art. 337 c.p. 
    L'inserimento in  sede  di  conversione,  accanto  all'originaria
disposizione derogatoria, dell'ulteriore presunzione assoluta di  non
particolare tenuita' dell'offesa in relazione - tra gli  altri  -  al
reato di cui all'art. 337 del codice penale  a  prescindere  da  ogni
collegamento con gli illeciti commessi in occasione di manifestazioni
sportive costituisce un elemento radicalmente innovativo e del  tutto
estraneo alla  materia  e  alle  finalita'  originarie  del  decreto.
Infatti, esso non soltanto non nulla ha a che vedere con alcuna delle
tre macro-materie da esso originariamente regolate, suddivise nei tre
capi in cui si articola il decreto,  ma  non  presenta  alcun  legame
neppure  con  la  disposizione  dello  stesso  art.  16,  nella   sua
formulazione originaria, che pure in qualche modo faceva  riferimento
all'art. 131-bis codice penale: invero, la nuova norma derogatoria  -
come meglio si dira' in prosieguo - lungi dal riferirsi ai soli  casi
di resistenza a pubblico ufficiale commessa «in occasione o  a  causa
di manifestazioni sportive», si caratterizza invece per  una  portata
generalizzata ed onnicomprensiva, in quanto e' idonea a ricomprendere
qualsivoglia forma e tipo di resistenza commessa nei confronti di  un
pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni,  a  prescindere
dalle specifiche peculiarita' del  caso  concreto  e  dall'essere  la
stessa posta in essere in  occasione  o  a  causa  di  manifestazioni
sportive. 
    Si tratta, in sostanza, di una vera e propria novella legislativa
che interviene in modo radicale e del tutto innovativo sulla generale
disciplina «a regime» dell'art. 131-bis del codice  penale,  sorretta
oltretutto da finalita' politico-criminali  che  nulla  hanno  a  che
vedere con il contrasto delle forme di violenza commesse in occasione
di  manifestazioni  sportive  (ne'  tantomeno,  ovviamente,  con   il
'contrasto all'immigrazione  clandestina'  o  con  il  'potenziamento
dell'efficacia dell'azione amministrativa a supporto delle  politiche
di sicurezza', di cui ai capi I e II del decreto), e che dunque,  per
essere «del tutto slegata da contingenze  particolari»,  ne'  dettata
dall'esigenza di regolare «situazioni gia' esistenti e  bisognose  di
urgente  intervento  normativo»,  vale  a  dire   dall'«esigenza   di
approntare rimedi  urgenti  a  situazioni  straordinarie  venutesi  a
creare»  (sentenza  n.  22  del  2012),  ma  avente  ad  oggetto,  al
contrario,   una   regolamentazione   restrittiva   degli    ordinari
presupposti di applicabilita' di una causa di non punibilita', appare
manifestamente inconferente rispetto alle materie oggetto del decreto
e, per cio'  solo,  in  contrasto  con  l'art.  77,  comma  2,  della
Costituzione. 
    D'altro canto, e' appena il caso di rilevare, in conclusione, che
l'eterogeneita' tra la legge di conversione e l'originario  contenuto
del  decreto,  oltre  che  essere  rilevata  da  numerosi  contributi
dottrinari, fu sottolineata anche dal Presidente della Repubblica, il
quale, contestualmente alla promulgazione della legge di conversione,
in una lettera dell'8 agosto 2019  indirizzata  ai  Presidenti  delle
Camere ed al  Presidente  del  Consiglio,  ebbe  a  rilevare  che  «I
contenuti del provvedimento appena promulgato sono stati, in sede  di
conversione, ampiamente modificati dal Parlamento  e  non  sempre  in
modo del tutto omogeneo rispetto a quelli originari del decreto-legge
presentato dal Governo»: per quanto ampia, ed evidentemente  riferita
anche ad altre disposizioni introdotte ex novo nel testo della  legge
di conversione (cfr. le  rilevanti  e  radicali  modifiche  apportate
all'art. 2,  nonche'  l'introduzione  degli  articoli  3-bis,  8-bis,
8-ter,  8-quater,  10-bis,  12-bis,  12-ter,  16-bis,  17-bis),  tale
osservazione non poteva che riferirsi, e ben si attaglia, anche  alla
disposizione in questa sede censurata. 
3.1.2. In via subordinata, ove la Corte costituzionale dovesse invece
ritenere che la  disposizione  di  cui  si  lamenta  l'illegittimita'
costituzionale  non  sia  del  tutto  estranea   rispetto   contenuto
originario del decreto-legge, dovrebbe allora essere effettuata anche
per essa, in ossequio  alla  medesima  giurisprudenza  costituzionale
sopra  ampiamente  richiamata,  la   valutazione   in   merito   alla
sussistenza  dei  presupposti  fattuali  di  necessita'  e   urgenza:
infatti, come la Corte ha avuto modo di chiarire  in  piu'  occasioni
(v. soprattutto sentenze n. 355 del 2010, n. 22 del 2012 e n. 247 del
2019)  tutte  le  norme  del  decreto-legge,  e  dunque  pure  quelle
introdotte in  sede  di  conversione  'non  del  tutto  estranee'  al
contenuto o alle finalita' dell'originario  decreto,  devono.  essere
assistite dal presupposto dell''urgente necessita'  del  provvedere',
di cui all'art. 77, comma 2,  della  Costituzione;  questo,  inoltre,
deve essere necessariamente unico per  ciascun  decreto-legge,  quale
'provvedimento normativa fornito di intrinseca coerenza'. 
    D'altra parte, come la Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di
rimarcare, una volta chiarita la necessaria sussistenza di  un  nesso
di  interrelazione  contenutistica  o   funzionale   tra   legge   di
conversione e decreto-legge,  il  rigoroso  rispetto,  da  parte  del
Governo, del presupposto di necessita' e urgenza assume  vieppiu'  un
rilievo fondamentale nel garantire l'ordinario riparto di  competenze
tra organo legislativo ed esecutivo stabilito  dalla  Costituzione  e
caratterizzante la stessa forma  di  Governo  (sentenza  n.  171  del
2007): invero, «Il carattere peculiare  della  legge  di  conversione
comporta  anche  che  il  Governo  -  stabilendo  il  contenuto   del
decreto-legge -  sia  nelle  condizioni  di  circoscrivere,  sia  pur
indirettamente, i confini del potere di emendamento parlamentare.  E,
anche sotto questo profilo, gli equilibri che la  Carta  fondamentale
instaura ira Governo  e  Parlamento  impongono  di  ribadire  che  la
possibilita', per il Governo,  di  ricorrere  al  decreto-legge  deve
essere realmente limitata ai soli casi straordinari di  necessita'  e
urgenza di cui all'art. 77 Cost. (sentenze n. 128 del 2008 e  n.  171
del 2007)» (sentenza n. 154 del 2015). 
    Ebbene, a giudizio del Tribunale il difetto  dei  presupposti  di
necessita' cd urgenza alla base del decreto in  questione,  e  dunque
anche della disposizione di cui all'art. 16, comma 1, lettera b),  e'
«evidente» (nel senso indicato soprattutto a partire  dalla  sentenza
n. 171 del 2007, sopra citata). 
    Innanzitutto, tale carenza si desume dalla radicale eterogeneita'
delle materie oggetto  di  intervento,  dall'assenza  di  un'unitaria
finalita' che riconduca ad unita' (se non contenutistica, quantomeno)
teleologica tali diverse ed eterogenee materie, nonche' dalla  totale
assenza, al momento dell'approvazione del  decreto,  di  una  qualche
'eccezionale e straordinaria situazione  di  fatto  bisognosa  di  un
urgente intervento normativo'. 
    Basta semplicemente porre mente alle rubriche  dei  capi  in  cui
l'atto normativo e' suddiviso per  rendersi  conto  che  le  numerose
disposizioni contenute nel decreto non  soltanto  non  rispettano  il
requisito della comunanza dell'oggetto, in quanto sono  riconducibili
a  materie  radicalmente  eterogenee,   ma   non   appaiono   neppure
caratterizzate   da   quella   intrinseca   coerenza   funzionale   e
finalistica, e dunque da quell'identita' di  ratio  che,  secondo  la
giurisprudenza costituzionale, deve connotare le singole disposizioni
di un decreto-legge  dal  contenuto  oggettivamente  e  materialmente
eterogeneo (cfr., oltre alla sentenza  n.  22  del  2012,  avente  ad
oggetto addirittura un decreto c.d. «milleproroghe», per  definizione
caratterizzato da contenuto eterogeneo, l'ordinanza a 34 del 2013,  e
la sentenza n. 32 del 2014). 
    Infatti, come si e' anticipato nel paragrafo precedente, il  capo
I prevede disposizioni concernenti il conferimento di poteri speciali
al  Ministro  dell'interno  per  limitare  o  vietare  l'accesso,  il
transito o la sosta di navi nel  mare  territoriale,  per  motivi  di
ordine e sicurezza  pubblica,  nonche'  la  previsione  di'  sanzioni
amministrative, anche a carattere reale quale la confisca della nave,
nei confronti del  comandante  della  stessa  che  non  ottemperi  al
divieto (articoli 1 e  2);  l'ampliamento  delle  attribuzioni  della
Procura distrettuale in  materia  di  associazioni  finalizzate  alla
commissione di alcuni delitti in materia di immigrazione  clandestina
(art. 3); l'incremento dei fondi per le operazioni di  polizia  sotto
copertura (art. 4); la modifica delle modalita' di comunicazione alle
questure  del  nominativo  delle  persone  alloggiate  da  parte  dei
titolari di strutture ricettive (art.  5);  la  previsione  di  nuovi
reati, ovvero di nuove circostanze aggravanti o modifiche della  pena
edittale,  volte  complessivamente  ad   inasprire   il   trattamento
sanzionatorio previsto per condotte lato sensu violente  commesse  in
occasione di manifestazioni in luogo pubblico o  aperto  al  pubblico
(articoli 6 e 7). 
    Le  disposizioni  inserite  nel   capo   II   invece   prevedono:
l'assunzione straordinaria di personale del Ministero della giustizia
per rafforzare gli organici  del  personale  deputato  all'esecuzione
delle sentenze di condanna (art. 8); la proroga di alcuni termini per
l'attuazione  della  normativa  inerente  alla  protezione  dei  dati
personali e in tema di  intercettazioni  (art.  9);  l'assunzione  di
nuovo personale per l'operazione «Strade sicure» in  occasione  delle
Universiadi di Napoli (art. 10); l'estensione di alcune  agevolazioni
in materia di soggiorno di breve durata, previste dalla legge  n.  68
del 2007 in favore di stranieri che giungono in  Italia  per  visite,
affari,  turismo  e  studio,  anche  alle  ipotesi   correlate   alla
partecipazione di atleti e gare sportive (art. 11); l'istituzione  di
un fondo destinato  a  finanziare  interventi  di  cooperazione  allo
sviluppo nei confronti di Paesi terzi, ovvero intese bilaterali,  con
finalita' premiali per  la  particolare  collaborazione  nel  settore
della riammissione (art. 12). 
    Infine, come pure si e' detto, al capo III sono  previste  alcune
disposizioni volte ad  inasprire  il  trattamento,  amministrativo  e
penale,  delle  condotte  di  violenza  commesse  in   occasione   di
manifestazioni sportive: in tale ambito si' inseriscono  le  novelle,
di cui si e' detto, concernenti il  DASPO  (art.  13),  il  fermo  di
indiziato di delitto (art. 14), l'arresto  differito  (art.  15),  la
nuova  circostanza  aggravante  comune  di  cui   all'art.   61,   n.
11-septies) c.p. e la non applicabilita' dell'art.  131-bis  ai  piu'
gravi reati commessi  «in  occasione  o  a  causa  di  manifestazioni
sportive» (art. 16),  l'ampliamento  del  novero  delle  condotte  di
bagarinaggio cui si  applica  la  speciale  normativa  amministrativa
sanzionatoria (art. 17). 
    Si tratta, dunque,  di  un  intervento  normativa  ad  amplissimo
spettro, riconducibile a  tre  macro-materie  tra  loro  radicalmente
eterogenee, che non appaiono accomunate da alcuna unitaria  finalita'
di intervento; ne' appare in alcun modo ipotizzabile  la  sussistenza
di un'unitarieta' di ratio che possa  accomunare  disposizioni  cosi'
diversificate in materia di: immigrazione clandestina, reati commessi
in luoghi pubblici o aperti  al  pubblico,  proroga dei  termini  per
l'attuazione  del  codice  della  privacy,  disposizioni  concernenti
condotte violente commesse in occasione di  manifestazioni  sportive,
etc.; disposizioni concernenti l'organizzazione delle Universiadi  di
Napoli; e cio' si riflette,  inevitabilmente,  e  a  fortiori,  sulla
norma in questa sede censurata, in  quanto  quest'ultima  non  appare
contenutisticamente legata a nessuna delle tre macro-materie  in  cui
si articola il provvedimento. 
    Tali  osservazioni  valgono  ancor   piu'   in   relazione   alla
disposizione  in  questa  sede  censurata.  Sul  punto   va   infatti
ulteriormente ribadito  e  specificato  quanto  gia'  evidenziato  in
precedenza,  e  cioe'  che  la   norma   in   questione   costituisce
un'innovazione «a regime» della  causa  di  non  punibilita'  di  cui
all'art. 131-bis del codice penale incidente  in  modo  radicale  sui
relativi presupposti applicativi; che essa non presenta - come si  e'
gia' osservato - alcun legame contenutistico e/o finalistico  con  le
altre (invero gia' tra  loro  eterogenee)  materie  disciplinate  dal
decreto; che la sua introduzione non era legata ad  alcuna  specifica
contingenza  storica  e  sociale  tale  da  richiedere   un   urgente
intervento normativo. 
    Per tali  ragioni,  l'inserimento  di  tale  disposizione  in  un
decreto-legge non puo' ritenersi  costituzionalmente  legittimo,  non
essendo stato  reso  necessario  da  quell'«esigenza  da'  approntare
rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a creare» (ancora,
sentenza  n.  22  del  2012)  che,  ai  sensi  dell'art.   77   della
Costituzione e secondo la giurisprudenza  costituzionale,  giustifica
il  ricorso  alla  decretazione  d'urgenza  da  parte  del   Governo.
D'altronde, ulteriore indice dell'insussistenza di  tali  presupposti
e'  costituito  dall'assenza,  nel  titolo  e   nel   preambolo   del
decreto-legge, di ogni riferimento all'art. 131-bis codice  penale  o
all'art. 337 c.p. 
    D'altro canto, pur a voler ritenere diversamente e dunque a voler
ipotizzare la sussistenza in relazione alla novella dell'art. 131-bis
codice penale di un autonomo «caso» straordinario  di  necessita'  ed
urgenza che legittimava il Governo ad intervenire  con  lo  strumento
del decreto-legge, il vizio  di  cui  all'art.  77,  comma  2,  della
Costituzione non potrebbe comunque ritenersi escluso: ed infatti - in
disparte ogni pur possibile considerazione circa  la  sussistenza  di
tale medesimo requisito in relazione  alle  ulteriori  ed  eterogenee
materie  oggetto  del  decreto,  sopra  brevemente  illustrate  -  si
tratterebbe comunque di un "caso" di necessita' ed urgenza autonomo e
del tutto distinto  da  quelli  ipotizzabili  per  le  altre  materie
contenute nel decreto (immigrazione clandestina,  reati  commessi  in
occasione di manifestazioni sportive); mentre al contrario - come  si
e' accennato in precedenza -  per  ormai  consolidata  giurisprudenza
costituzionale uno e singolo deve essere il "caso"  di  necessita'  e
urgenza sotteso a ciascun decreto-legge, atteso che «La scomposizione
atomistica   della   condizione   di   validita'   prescritta   dalla
Costituzione si pone in contrasto con il  necessario  legame  tra  il
provvedimento  legislativo  mente  ed  il  'caso'  che  lo  ha   reso
necessario» (sentenza n. 22 del 2012). 
    Il provvedimento in questione, dunque, non risponde ad alcuno dei
presupposti di legittimita' delineati dalla Corte costituzionale, non
potendosi in alcun modo considerare, per le ragioni sin qui  addotte,
'un tutto unitario, atto normativo fornito  di  intrinseca  coerenza,
anche se articolato e  differenziato  al  suo  interno',  ma  appare,
piuttosto, come 'una congerie di norme assemblate  soltanto  da  mera
casualita' temporale'. 
    In definitiva, la radicale eterogeneita'  contenutistica  tra  la
disposizione censurata rispetto a altre materie (pur tra esse  quanto
mai eterogenee) oggetto di regolamentazione, l'assenza di  una  ratio
unitaria che riconduca ad  unita'  funzionale  i  diversi  ambiti  di
intervento, la  circostanza  che  la  norma  censurata  sottenda  una
modifica «a regime» di una  causa  di  non  punibilita'  di  generale
applicazione,   l'assenza   di   ogni    contingenza    fattuale    e
storico-sociale che giustificasse l'urgente necessita' di provvedere,
rendono  evidente  l'assenza  dei  presupposti  normativi   richiesti
dall'art. 77 della Costituzione per  il  legittimo  esercizio,  senza
delega, del potere di decretazione da parte del Governo. 
3.2. Violazione degli articoli 3, 25, comma 2, 27, comuni 1 e 3 Cost. 
    Ritiene altresi' il Tribunale che la presunzione assoluta di  non
particolare tenuita' dell'offesa nel caso di  delitto  di  resistenza
commesso nei confronti di un pubblico ufficiale,  prevista  dall'art.
131-bis, comma  2,  codice  penale,  sia  contraria  ai  principi  di
uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita'  (art.  3  Cost.),  di
responsabilita' per il fatto  e  personalita'  della  responsabilita'
penale (articoli 25, comma 2 e 27, comma 1, Cost.) e della  finalita'
rieducativa della pena (art. 27, comma 3 Cost.). 
    Al solo fine di rendere piu' agevole l'esposizione dei  dubbi  di
legittimita'  costituzionale  nutriti  da  questo   Giudice,   appare
opportuno premettere qualche breve considerazione sulla figura  della
particolare tenuita' del fatto. 
    Com'e' noto, con  l'introduzione  dell'art.  131-bis  del  codice
penale ad opera del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, emanato
in attuazione della delega contenuta nella legge 28 aprile  2014,  n.
67, il legislatore ha finalmente introdotto nel sistema penale comune
italiano una disciplina, invero sollecitata da decenni dalla dottrina
penalistica, delle c.d. microviolazioni non  autonome.  La  soluzione
dommatica prescelta dal legislatore delegante e da quello delegato e'
stata l'introduzione di una causa generale  di  non  punibilita'  (su
tale pacifica  natura  giuridica  cfr.  Cassazione  pen.,  Sez.  un.,
sentenza n. 13681/16, Tushaj, nonche' Corte costituzionale,  sentenza
n. 207 del 2017). 
    Si tratta di una norma di parte generale che, combinata di  volta
in volta con le singole fattispecie criminose, delinea la  fisionomia
dell'illecito bagatellare non punibile, vale a dire quel  fatto-reato
che - mutuando delle efficaci espressioni  impiegate  dalla  dottrina
penalistica tedesca - pur essendo in astratto  'meritevole  di  pena'
(strafwürdig) in quanto offensivo di un bene giuridico meritevole  di
tutela penale,  per  l'esiguita'  dell'offesa  ad  esso  in  concreto
arrecata e del grado di responsabilita' individuale,  non  ne  e'  in
concreto 'bisognoso' (strafbedürfig) - rectius, non e'  bisognoso  di
una  pena,  come  quella  delineata  dall'art.  27,  comma  3,  della
Costituzione,  orientata  alla  rieducazione,   e   non   alla   mera
retribuzione. 
    La rinuncia dell'ordinamento all'applicazione  di  una  pena  per
fatti  di  scarsa  gravita'  costituisce  dunque   l'attuazione   dei
principi, di  rango  costituzionale,  di  sussidiarieta'  (o  extrema
ratio) del diritto penale e di  proporzionalita',  inteso  nella  sua
componente   tripartita   della   idoneita'   (Geeignetheit),   della
necessita' (Erforderlichkeit) e della proporzione  in  senso  stretto
(Verhältnismäßigkeit im engeren Sinne),  intimamente  connessi,  come
meglio  si  tentera'  di  porre   in   evidenza,   ai   principi   di
responsabilita'  per  il  fatto  (art.  25,  comma  2,   Cost.),   di
personalita' della responsabilita' penale (art. 27, comma 1, Cost.) e
a quello rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.). 
    Come gia' anticipato in punto di rilevanza  della  questione,  il
legislatore ha tracciato il campo  applicativo  della  causa  di  non
punibilita' in esame ancorando il suo riconoscimento a  tre  distinte
condizioni, tra loro cumulative (art. 131-bis, comma 1 c.p.): 
        1) che si tratti di  reato  punito  con  pena  detentiva  non
superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con pena pecuniaria, sola
o congiunta alla prima; 
        2) che l'offesa sia di  particolare  tenuita',  tenuto  conto
della gravita' del danno o  del  pericolo  e  delle  modalita'  della
condotta; 
        3) che il comportamento non sia abituale. 
    La valutazione legislativa  circa  la  particolare  tenuita'  del
fatto e' dunque fondata su tre  criteri  quantitativo-qualitativi  di
selezione dell'illecito penale bagatellare: il  primo  e'  di  natura
astratta, in  quanto  agganciato  all'entita'  della  pena  detentiva
massima comminata; il secondo  e  il  terzo  sono  invece  di  natura
concreta,  in  quanto  ancorati  alla  scarsa  gravita'  oggettiva  e
soggettiva dell'illecito  hic  et  nunc  considerato,  desunte  dagli
indici-criteri della tenuita' dell'offesa (a sua volta  da  valutarsi
in base agli indici-requisiti dell'entita' del danno o  del  pericolo
cagionato e delle modalita' non allarmanti della condotta, id est del
disvalore d'evento e del disvalore oggettivo d'azione)  e  della  non
abitualita'  del  comportamento  (id  est,  dalla  non  pericolosita'
dell'autore). 
    Dall'analisi di tali criteri emerge dunque che il legislatore, in
linea  con  una  concezione  gradualistica  dell'illecito  nelle  sue
componenti sia oggettive che soggettive, ha considerato  suscettibili
di essere considerati di particolare tenuita' reati  appartenenti  ad
un'ampia ed eterogenea macro-categoria, caratterizzata esclusivamente
dalla circostanza che la relativa pena detentiva edittale massima non
sia superiore a cinque anni: al di sopra di tale  limite  vi  e'  una
presunzione assoluta di non particolare tenuita' del  fatto,  che  la
Corte costituzionale ha gia' avuto modo di ritenere di  per  se'  non
irragionevole (sentenza n. 207 del 2017). 
    Al di sotto di tale limite, invece, qualsiasi reato  puo'  essere
considerato in concreto di particolare tenuita', ove il fatto storico
conforme alla fattispecie  incriminatrice  sia  caratterizzato  dagli
indici-criteri della tenuita' dell'offesa e della non  abituanti  del
comportamento, la cui ricorrenza  va  di  conseguenza  accertata,  di
volta in volta, dal giudice mediante una  «valutazione  mirata  sulla
manifestazione del reato, sulle sue  conseguenze»,  dal  momento  che
«...non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica.  E'  la
concreta manifestazione del reato che  ne  segna  il  disvalore»,  di
talche' al di sotto del limite di pena detentiva  massima  di  cinque
anni «non si da' tipologia di reato per la quale non sia possibile la
considerazione della modalita' della condotta; ed in cui  sia  quindi
inibita  ontologicamente  l'applicazione  del  nuovo  istituto»   (in
termini Cassazione pen., Sez. un., Tushaj, cit.). 
    E'  pertanto  inevitabile  che,   nella   valutazione   di   tali
indicatori, analogamente a quanto avviene - e non a caso - in fase di
commisurazione della pena, il giudice goda di  un  ampio  margine  di
apprezzamento,  strettamente  connesso  alla   variegata   gamma   di
possibili manifestazioni concrete  di  una  medesima  fattispecie  di
reato, fatte salve le sole presunzioni assolute  di  non  particolare
tenuita' dell'offesa previste  dall'art.  131-bis,  comma  2,  codice
penale («L'offesa non puo' essere ritenuta di  particolare  tenuita',
ai sensi del primo comma...») e  di  abitualita'  del  comportamento,
previste dal comma 3 ("Il comportamento e' abituale..."), su  cui  ci
si e' soffermati in sede di rilevanza della questione, e su  cui  tra
poco si tornera'. 
    D'altronde, l'ampiezza della valutazione giurisdizionale circa la
gravita' concreta del fatto di reato non puo' stupire, ma costituisce
un'inevitabile conseguenza della natura  gradualistica  dell'illecito
penale, a sua volta  intrinsecamente  connessa  alla  sua  natura  di
illecito non soltanto formale,  ma  anche  sostanziale,  quale  fatto
carico di disvalore - oggettivo e soggettivo - in rapporto ai  valori
fondamentali dell'ordinamento: ed invero, inteso non gia' quale  mera
disobbedienza al comando normativo, bensi' in senso sostanziale quale
offesa concreta ad un bene giuridico realizzata volontariamente o per
colpa, meritevole e bisognosa di sanzione,  il  reato  e'  giocoforza
un'entita'  non  riducibile  ad   un   giudizio   binario   di   mera
insussistenza/sussistenza, ma al contrario un  quid  suscettibile  di
essere graduato secondo coefficienti crescenti di gravita'. In  altri
termini, nell'ottica sostanzialistica ed  assiologicamente  orientata
propria del nostro ordinamento penale, la gravita' di un fatto-reato,
e con essa la  risposta  sanzionatoria  approntata  dall'ordinamento,
dipende, in astratto, dal grado di meritevolezza del  bene  giuridico
tutelato e dall'astratta tipologia di elemento psicologico  richiesto
dalla fattispecie (elementi valutati  in  astratto  dal  legislatore,
mediante la previsione  di  differenziate  comici  edittali);  e,  in
concreto, dalla gravita' dell'offesa concreta arrecata al bene, dalle
modalita' della condotta, dall'intensita' e dal  grado  dell'elemento
psicologico, nonche' dal grado di responsabilita' colpevole  del  suo
autore:  in  altri  termini,  dalla  specificita'  della  concreta  e
irripetibile modalita' di manifestazione dell'illecito nella  realta'
fenomenica. 
    Non a  caso,  tutti  tali  criteri  sono  espressamente  previsti
dall'art. 133 del codice penale  quali  parametri  di  commisurazione
della pena nell'ambito della cornice edittale. Come le stesse Sezioni
unite   della   Corte   di   cassazione   hanno   osservato   citando
l'insegnamento del Carrara, «nella ricerca sul grado  si  esamina  un
fatto nelle eccezionali  accidentalita'  del  suo  concreto  modo  di
essere nella individualita' criminosa nella quale si  estrinseca;  e,
nel rispetto della legge, tale giudizio non puo' che  essere  rimesso
al magistrato  perche'  l'uomo  deve  essere  condannato  secondo  la
verita' e non secondo le presunzioni (Cass. pen., Sez.  un.,  Tushaj,
cit.). 
    Cio'  premesso  in  via   generale,   va   rilevato   che   dalla
macro-categoria dei reati puniti con pena detentiva non superiore nel
massimo a cinque anni, nel cui ambito, come si  e'  detto,  qualsiasi
reato puo' essere considerato, in concreto, di particolare  tenuita',
la disposizione di cui al novellato art. 131-bis,  comma  2,  seconda
parte, esclude tout court (accanto a quelli di cui agli articoli  336
e 341-bis c.p.) il delitto di cui  all'art.  337  codice  penale,  se
commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio  delle
sue funzioni, sul presupposto che «l'offesa» da esso  cagionata  «non
puo'... essere ritenuta di particolare tenuita'». 
    Tale reato viene cosi'  sottoposto  ad  un  regime  sanzionatorio
peculiare e del  tutto  eccezionale,  giacche',  pur  trattandosi  di
delitto punito con pena detentiva non superiore nel massimo a  cinque
anni, esso e'  sottratto  in  radice  dall'ambito  applicativo  della
particolare tenuita' del fatto: la  presunzione  assoluta  introdotta
dal legislatore fa si' che, pur ove - come nel caso di specie -  esso
sia caratterizzato da una scarsa offensivita'  concreta,  il  giudice
non puo' mai, ad onta di ogni evidenza fattuale  contraria,  ritenere
l'offesa di particolare tenuita'. 
    Non ignora il Tribunale che la  configurazione  dei  reati  e  la
determinazione delle sanzioni per essi previste,  e  cosi'  anche  la
previsione di presunzioni assolute attinenti ad uno o  piu'  elementi
del reato ovvero  alla  modulazione  del  trattamento  sanzionatorio,
rientrano, in linea di principio,  nel  margine  di  discrezionalita'
politica del legislatore, insindacabile dalla Corte costituzionale in
base all'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Proprio in tema di
cause di non punibilita' la Corte costituzionale ha invero gia' avuto
modo di chiarire che «...l'estensione di cause di non punibilita', le
quali costituiscono altrettante  deroghe  a  norme  penali  generali,
comporta strutturalmente un  giudizio  di  ponderazione  a  soluzione
aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle  che
sorreggono la norma generale e quelle  che  viceversa  sorreggono  la
norma derogatoria: un giudizio che e' da riconoscersi...  appartenere
primariamente al legislatore» (sentenza n.  140  del  2009,  nonche',
piu' di recente, sentenza n. 207 del 2017). Tuttavia, anche  in  tali
ambiti le  scelte  legislative  devono  rispettare  il  limite  della
ragionevolezza, come pure la  stessa  Corte  costituzionale  ha  piu'
volte ribadito [ex multis, sentenza n.  185  del  2015:  «Secondo  la
costante  giurisprudenza   costituzionale,   l'individuazione   delle
condotte  punibili  e  la  configurazione  del  relativo  trattamento
sanzionatorio rientrano nella discrezionalita'  legislativa,  il  cui
esercizio non puo' formare oggetto  di  sindacato,  sul  piano  della
legittimita'  costituzionale,  salvo  che  si   traduca   in   scelte
manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex multis: sentenze n.  68
del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007  e  n.  324
del 2006)»]. 
    Analogamente, le presunzioni assolute attinenti ad  elementi  del
reato ovvero alla modulazione del trattamento sanzionatorio,  nonche'
quelle previste in ambito processuale, non possono  considerarsi,  di
per se', incompatibili con il dettato costituzionale. Tuttavia, anche
in  questo  caso,  per  costante  giurisprudenza  costituzionale,  la
discrezionalita'  politica  e  politico-criminale   del   legislatore
incontra  l'inderogabile  limite   dei   principi   di   uguaglianza,
ragionevolezza e proporzionalita', a loro volta strettamente connessi
ai principi di personalita'  della  responsabilita'  penale  e  della
finalita' rieducativa della pena. 
    Ed infatti, la Corte ha piu' volte ribadito  che  le  presunzioni
assolute «... specie quando limitano un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit
(sentenze n. 139 del 1982, n.  333  del  1991,  n.  225  del  2008)»,
specificando che «...l'irragionevolezza della presunzione assoluta si
puo' cogliere tutte le volte in cui sia "agevole"  formulare  ipotesi
di accadimenti reali contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base
della presunzione stessa  (sentenza  n.  41  del  1999)»  (cosi',  ex
multis, sentenze n. 232 e n. 233 del 2012; ma  v.  pure  sentenze  n.
182, n. 164 del 2011, n. 265 del 2010 e, da ultimo, n. 253 del 2019):
in  altri  termini,   la   valutazione   legislativa   sottesa   alla
presunzione,  se  puo'  certamente  essere  dettata  da   valutazioni
politiche   e   politico-criminali   del   legislatore   di    natura
discrezionale, in quanto tali non sindacabili, non puo'  al  contempo
sfociare nell'arbitrio, nel senso che una siffatta  valutazione  deve
pur  sempre  dimostrarsi  ancorata  a  'vincoli  di  realta',   ossia
possedere un radicamento empirico verificabile  o  falsificabile  (da
ultimo, particolarmente significative in tal senso appaiono  le  note
decisioni, sia pur adottate in ambito processuale, aventi ad  oggetto
le presunzioni di adeguatezza di cui all'art. 275, comma 3, codice di
procedura penale, n. 265 del 2010, n. 164 del 2011, n. 110 del  2012,
n. 57 del 2013, nonche', in materia di c.d.  ergastolo  ostativo,  la
citata n. 253 del 2019). 
    Ebbene, come subito piu' dettagliatamente si illustrera'  facendo
applicazione dei suddetti criteri direttivi tracciati dalla Corte, la
presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa  di  cui
di discorre appare a questo Giudice fondata su di una valutazione  di
tipo aprioristico, assoluta  ed  onnicomprensiva,  giacche'  essa  e'
legata esclusivamente al titolo del reato e non  gia'  -  come  nelle
fattispecie presuntive gia' previste dal comma  2  dell'art.  131-bis
del codice penale e nella formulazione originaria  del  decreto-legge
n.  53/2019  -  a  specifiche  peculiarita'  dell'offesa  e/o   delle
modalita' della condotta caratterizzanti  il  singolo  fatto  storico
oggetto di vaglio giurisdizionale. 
    Di talche', sottraendo eccezionalmente il delitto di cui all'art.
337  del  codice  penale  dall'ambito  applicativo  della  disciplina
ordinaria approntata dal legislatore all'art. 131-bis codice  penale,
da   un   lato,   sottopone   tale   delitto   ad   una    disciplina
irragionevolmente differenziata rispetto a quella tuttora applicabile
anche per reati analoghi; dall'altro, e di conseguenza, introduce  un
automatismo sanzionatorio che costringe il giudice  ad  irrogare  una
pena  anche  in  relazione  a  fatti  che  non  ne  sono  in  realta'
'bisognosi' alla luce dei criteri generali approntati, per ogni altro
reato, dal medesimo legislatore,  e  dunque  oltre  la  misura  della
responsabilita' del singolo individuo in relazione al fatto commesso;
tale pena, pertanto, risulta irragionevole in  quanto  sproporzionata
nell'an (ancor prima  che  nel  quantum)  e  non  puo'  svolgere,  di
conseguenza, alcuna finalita' rieducativa, ma soltanto  una  funzione
di  riaffermazione  simbolica  del  valore   della   norma   violata,
strumentalizzando  cosi'  l'individuo  per  finalita'   di   politica
criminale. 
    La norma in questa sede  censurata  sembra  aver  introdotto,  in
sostanza,   un   automatismo   sanzionatorio    intrinsecamente    ed
estrinsecamente irragionevole, e percio'  contrario  ai  principi  di
uguaglianza, ragionevolezza e proporzione di cui all'art. 3, comma 1,
della Costituzione e che, imponendo l'applicazione di una pena ad  un
fatto di essa non bisognoso, si pone in contrasto con  gli  ulteriori
principi di responsabilita' per il  fatto  e  di  personalita'  della
responsabilita' penale di cui agli articoli 25, comma 2 e 27, comma 1
della  Costituzione,  nonche'  con  il  principio   della   finalita'
rieducativa  della  pena,  di  cui  all'art.  27,   comma   3   della
Costituzione. 
    Passando ora piu' concretamente all'esposizione delle ragioni  su
cui tali dubbi di legittimita' costituzionale si fondano, osserva  il
Tribunale quanto segue. 
    Quanto  all'irragionevolezza  intrinseca,  non   sembra   esservi
innanzitutto alcuna  ratio  giustificatrice  del  regime  eccezionale
previsto per l'art. 337 codice penale, giacche', come si e' detto, la
presunzione di non particolare  tenuita'  dell'offesa  non  e'  stata
ancorata (come invece era avvenuto nella formulazione originaria  del
decreto) a specifiche peculiarita' del  fatto  storico  hic  et  nunc
considerato, ma esclusivamente al titolo del reato, che viene  dunque
escluso 'in blocco' dall'ambito di operativita' della non particolare
tenuita' del fatto, a prescindere dalle  sue  concrete  modalita'  di
manifestazione. In altri termini, la presunzione in questione non  e'
legata ad alcun elemento del fatto come  concretamente  accertato  in
giudizio, incidente sugli ordinari indici-requisiti dell'entita'  del
danno o del pericolo cagionato e/o caratterizzante le modalita' della
condotta, e dunque comprende anche  fatti  caratterizzati  da  offese
modestissime  al  bene  giuridico,  poste  in  essere  in  situazioni
concrete affatto allarmanti. 
    Non vi e', tuttavia, alcuna valida  ragione  logico-giuridica  in
base  alla  quale  poter  ragionevolmente  sostenere   che   l'offesa
cagionata dal delitto di cui all'art. 337 codice penale, a differenza
di quella prodotta da qualsiasi altro delitto egualmente  punito  con
pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni e, come subito
si  dira',  anche  di  altri  analoghi  delitti  contro  la  pubblica
amministrazione, possa essere considerata, ex se e  in  astratto,  in
tutte  le  sue  possibili,  innumerevoli  forme   di   manifestazione
concrete, di non particolare tenuita'. La generalizzazione sottesa  a
tale presunzione non e' dunque ancorata ad alcun vincolo di  realta',
non e' supportata e giustificata da alcun  criterio  logico-giuridico
razionale, empiricamente e/o assiologicamente fondato, oggettivamente
ne'  verificabile   ne'   falsificabile:   essa   risulta,   percio',
irragionevole e arbitraria. 
    Al contrario, la  fattispecie  delittuosa  di  cui  all'art.  337
codice penale, come peraltro testimoniato  dalla  sua  ampia  cornice
edittale che va da sei mesi a cinque anni  di  reclusione,  ben  puo'
assumere, in  concreto,  una  variegata  molteplicita'  di  forme  di
manifestazione e di gradi di gravita'. 
    Per quanto piu' specificamente  concerne  l'offesa  (intesa  lato
sensu, comprendendo in essa non soltanto il  grado  della  lesione  o
messa in pericolo, ma anche le modalita' dell'aggressione  al  bene),
la cui non particolare tenuita' e' presunta  iuris  et  de  iure  dal
legislatore, va osservato  che  la  sua  intensita'  puo'  variare  a
seconda che il delitto venga posto  in  essere  con  minaccia  o  con
violenza, nonche' in ragione della tipologia specifica di minaccia  o
di violenza, che l'azione sia di breve o  di  lunga  durata,  che  la
condotta consti di un solo o di piu'  atti,  ovvero  venga  posta  in
essere in  una  situazione  pienamente  controllabile  da  parte  del
pubblico  ufficiale,  ovvero  nel  corso  di  eventi   o   interventi
particolarmente delicati, che il regolare  esercizio  della  funzione
pubblica  sia  stato   soltanto   momentaneamente   turbato,   ovvero
irrimediabilmente menomato, etc. 
    Se, dunque, estremamente variegate  sono  le  modalita'  con  cui
l'offesa sottesa al delitto in esame puo'  manifestarsi,  non  appare
allora ragionevole la previsione di una presunzione assoluta  di  non
particolare tenuita' dell'offesa applicabile ad ogni possibile  forma
di resistenza a pubblico ufficiale; fatti  di  scarsissima  rilevanza
sono non soltanto 'agevoli da immaginare', ma  quanto  mai  frequenti
nella prassi giudiziaria. D'altra parte, proprio quello che ci occupa
in questa sede rappresenta un chiaro e lampante caso 'contrario  alla
«generalizzazione posta a base  della  presunzione»',  giacche'  esso
presenta, come si e' tentato di argomentare  in  punto  di  rilevanza
della questione, tutti gli indici-requisiti richiesti in via generale
dal 131-bis del codice penale per la  qualificazione  in  termini  di
particolare tenuita'. E cio' nonostante esso non puo',  per  espresso
divieto normativo, essere considerato tale. 
    Il confronto tra tale presunzione e le altre  gia'  previste  dal
medesimo  comma  2  dell'art.  131-bis  codice  penale,  lungi  dallo
smentire l'irragionevolezza di tale ulteriore previsione derogatoria,
sembra al contrario confermarne il fondamento. 
    Invero, tali  presunzioni  appaiono  strutturalmente  diverse  da
quella in questa sede censurata, giacche' non sono caratterizzate  da
un'analoga assolutezza ed onnicomprensivita': esse non  sono  legate,
infatti,  al  mero  titolo   del   reato,   bensi'   alla   peculiare
macro-tipologia di  offesa  in  concreto  cagionata  (morte,  lesioni
gravissime), ovvero alle modalita' e alle specifiche  circostanze  di
tempo o di luogo  della  condotta,  ovvero  alla  peculiare  concreta
condizione della persona offesa (crudelta' o sevizie,  condizione  di
minorata difesa della persona offesa), ovvero ai motivi a  delinquere
(motivi abietti o futili). In  altri  termini,  esse  non  comportano
l'aprioristica esclusione di una  singola,  specifica  e  determinata
fattispecie   dall'alveo   applicativo   dell'istituto   della    non
punibilita'  per  particolare  tenuita'  del   fatto,   tua   possono
attagliarsi a qualsivoglia reato o categoria di reati e sono comunque
legate esattamente agli stessi paramenti (c.d. indici-requisiti),  di
valutazione della 'particolare tenuita' dell'offesa', di cui al comma
1: l'esiguita'  del  danno  o  del  pericolo  e  le  modalita'  della
condotta. Inoltre - ad  eccezione  delle  sole  ipotesi  di  morte  e
lesioni gravissime - si tratta  di  elementi  del  fatto  sottesi  ad
altrettante  circostanze  aggravanti  comuni  previste  dall'art.  61
codice penale e/o a parametri commisurativi della  pena,  sub  specie
«gravita' del reato», previsti dall'art. 133 del codice penale,  come
tali dunque attinenti al singolo fatto storico accertato in  giudizio
e non gia' alla fattispecie  criminosa  che  astrattamente  viene  in
rilievo. 
    Tali presunzioni, in altri termini,  sono  ancorate  a  peculiari
circostanze del fatto storico  che  incidono  su  specifici  elementi
dell'illecito penale, quali la tipologia,  la  qualita'  o  il  grado
dell'offesa, le circostanze di  tempo  e  di  luogo  della  condotta,
l'intensita' e/o il grado dell'elemento psicologico, l'entita'  della
colpevolezza/responsabilita',   determinandone,   a   giudizio    del
legislatore,  la  sua  concreta  (e  non  astratta)  non  particolare
tenuita'. 
    Al contrario, si ripete, la disposizione qui  censurata  realizza
una generalizzata e indiscriminata sottrazione al regime ordinario di
applicabilita' dell'art.  131-bis  del  codice  penale  di  tutte  le
possibili forme di manifestazione del delitto di cui all'art. 337 del
codice  penale  commesso  nei   confronti   di   pubblico   ufficiale
nell'esercizio delle sue funzioni, non supportata da alcun fondamento
giustificativo  razionale:  la  prassi   giudiziaria   dimostra,   al
contrario, la  straordinaria  frequenza  di  ipotesi  contrarie  alla
generalizzazione  posta  alla  base  della   presunzione,   dovendosi
pertanto ritenere che l'esclusione aprioristica della fattispecie  di
cui all'art. 337 del codice penale dall'ambito operativo della  causa
di non punibilita' della non particolare tenuita' del fatto si  fonda
su di  una  valutazione  non  corrispondente  all'id  quod  plerumque
accidit,  e  dunque  intrinsecamente  irragionevole,  in   violazione
dell'art. 3 della Costituzione. 
    Quanto ai profili di irragionevolezza estrinseca, va rilevato che
la presunzione assoluta in questione si risolve  innanzitutto  in  un
eguale trattamento  di  situazioni  eterogenee:  non  consentendo  al
Giudice di apprezzare i profili di particolare  tenuita'  dell'offesa
pur emergenti nel caso concreto sottoposto al suo vaglio, essa  rende
infatti comunque punibile tale fatto, alla medesima stregua di  fatti
connotati da un disvalore  oggettivo  effettivamente  superiore  alla
soglia della particolare tenuita' dell'offesa. 
    Ma siffatta irragionevolezza emerge soprattutto dalla circostanza
che  rispetto  ad  altri  reati,  caratterizzati  da  identico   bene
giuridico tutelato e analoghe modalita' di aggressione - e che dunque
sembrano poter essere correttamente elevati a tertia comparationis  -
risulta tuttora applicabile la  causa  di  non  punibilita'  prevista
dall'art. 131-bis codice penale: la disposizione censurata determina,
pertanto, anche un trattamento differenziato di situazioni omogenee. 
    Come si e' avuto modo di osservare in punto  di  rilevanza  della
questione, secondo l'interpretazione  fornita  dalle  Sezioni  unite,
condivisa dal Tribunale, il delitto di cui all'art.  337  del  codice
penale   tutela   il   «regolare   funzionamento    della    pubblica
amministrazione», sia pure inteso in senso lato - alla  luce  di  una
concezione  organica  della  stessa  -  fino  a   ricomprendervi   la
«sicurezza e liberta' di determinazione  e  di  azione  degli  organi
pubblici,  mediante  la  protezione   delle   persone   fisiche   che
singolarmente o in collegio ne  esercitano  le  funzioni»  e  che  ne
manifestano all'esterno la volonta' (ma  in  termini  sostanzialmente
analoghi si era espressa gia' la Corte costituzionale con l'ordinanza
n. 425 del 1996). 
    Cosi' definito, si tratta di un bene giuridico ad ampio  spettro,
comune a numerosissimi delitti contro  la  pubblica  amministrazione,
siano essi commessi dal pubblico ufficiale, siano essi  commessi  dai
privati, moltissimi dei quali peraltro puniti con pena detentiva  non
superiore nel massimo a cinque anni, e dunque rientranti  nell'ambito
applicativo dell'art. 131-bis codice penale (2) . 
    Volendo rimanere nell'ambito dei delitti  commessi  dai  «privati
contro la pubblica amministrazione», di cui al capo II del titolo  II
del codice penale, nell'ambito dei quali rientra  appunto  quello  di
cui all'art. 337 codice  penale,  puo'  richiamarsi  in  questa  sede
l'attenzione innanzitutto sulla fattispecie di  «Interruzione  di  un
ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica  necessita'»
prevista dall'art. 340 codice penale, punita con la reclusione fino a
un anno nell'ipotesi base e da uno a  cinque  anni  se  il  fatto  e'
commesso dai capi, promotori od organizzatori (comma 2). Dal punto di
vista del bene giuridico si tratta di un delitto del tutto omogeneo a
quello di  resistenza  a  pubblico  ufficiale  (e  rispetto  ad  esso
addirittura piu' grave nell'ipotesi di cui al comma 2): invero,  come
nell'ipotesi prevista dall'art.  337  codice  penale,  anche  qui  la
condotta del privato - sia pure a forma libera - cagiona  un'indebita
interruzione o un turbamento  della  regolarita'  di  un  servizio  o
ufficio pubblico (o di un servizio di pubblica necessita'), impedendo
il «regolare funzionamento della pubblica  amministrazione».  Ebbene,
nulla osta a che, in concreto, alla luce dell'esiguita' del  danno  o
del pericolo cagionato  al  bene  giuridico  e  delle  modalita'  non
allarmanti della condotta, il giudice qualifichi l'offesa in  termini
di particolare tenuita' ai sensi dell'art. 131-bis c.p. 
    Ancora, puo' essere  ulteriormente  preso  in  considerazione  il
delitto di «Oltraggio a un magistrato in udienza» previsto  dall'art.
343  codice  penale,  punito  con  la  reclusione  fino  a  tre  anni
nell'ipotesi base (comma 1), da due a cinque anni  nel  caso  in  cui
l'offesa consista nell'attribuzione di un  fatto  determinato  (comma
2), e con le medesime pene, aumentate fino a un terzo, «se  il  fatto
e' commesso con violenza o  minaccia»  (comma  3).  Tale  delitto  e'
caratterizzato da una ancora  piu'  marcata  omogeneita'  rispetto  a
quello di cui all'art. 337 codice penale,  poiche'  anche  in  questo
caso   l'offesa   al   «regolare   funzionamento    della    pubblica
amministrazione» (nella specie, della funzione giurisdizionale) viene
realizzata per mezzo  dell'aggressione  alla  persona  che  per  essa
agisce (la figura generica del pubblico ufficiale  nel  caso  di  cui
all'art. 337 del codice penale, quella specifica del  magistrato  nel
caso di cui all'art. 343 c.p.); l'omogeneita' e' peraltro  pressoche'
totale nell'ipotesi di cui all'art.  343,  comma  3,  codice  penale,
caratterizzata  da  identiche  modalita'  di  aggressione   al   bene
(violenza o minaccia). Ebbene, anche in questo caso nulla osta a che,
in concreto, alla  luce  dell'esiguita'  del  danno  o  del  pericolo
cagionato al bene giuridico e delle modalita'  non  allarmanti  della
condotta, il giudice qualifichi l'offesa in  termini  di  particolare
tenuita' ai sensi dell'art. 131-bis c.p. 
    Il confronto con fattispecie analoghe, e pur tuttavia non escluse
dall'ambito di operativita' dell'art. 131-bis codice  penale,  sembra
dunque condurre a ritenere che la presunzione assoluta in questa sede
censurata (oltre ad essere in se' irragionevole) si  traduce  in  una
discriminatoria  disparita'  di  trattamento  tra  chi  commette  una
violenza  o  minaccia  nei  confronti  di   un   pubblico   ufficiale
ascrivibile all'art. 337 codice penale (la cui offesa non puo' essere
ritenuta di particolare tenuita'), e chi invece commette,  egualmente
mediante violenza o minaccia, un oltraggio a un magistrato in udienza
(egualmente un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni),
la  cui  offesa  invece  potra'  essere  ritenuta,  in  concreto,  di
particolare tenuita'. 
    La disposizione in questa sede censurata, cosi,  sottopone  senza
alcun fondamento empirico giustificativo il delitto di  cui  all'art.
337 del codice penale ad una  disciplina  differenziata  e  deteriore
rispetto a quella ordinariamente prevista non soltanto per ogni altro
reato punito con pena detentiva non superiore nel  massimo  a  cinque
anni, ma anche per delitti ad esso del tutto analoghi quanto  a  bene
giuridico tutelato e a modalita' di aggressione (tra cui, ad esempio,
quelli previsti dagli articoli 340 e 343 c.p.). 
    In definitiva, per  le  ragioni  sin  qui  esposte,  essa  appare
caratterizzata  anche  da  un'irragionevolezza  estrinseca,  giacche'
determina, al contempo, un irragionevole trattamento differenziato di
situazioni  omogenee  e  un  irragionevole  trattamento  omogeneo  di
situazioni  differenti,  e  percio'  anche  sotto  tale  profilo   in
contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    Chiariti i profili della ritenuta irragionevolezza intrinseca  ed
estrinseca, va poi ulteriormente rilevato che  tale  disposizione  si
traduce in un automatismo sanzionatorio che preclude  al  giudice  un
vaglio individualizzante del singolo  e  irripetibile  fatto  storico
portato alla sua attenzione, costringendolo  cosi'  ad  irrogare  una
pena sproporzionata nell'an ancor  prima  che  nel  quantum,  poiche'
applicata ad un fatto che, in base ai criteri  generali  fissati  dal
medesimo legislatore, non ne e' invece `bisognoso': cio', come si  e'
anticipato in premessa, determina una  violazione  non  soltanto  del
principio di uguaglianza, sub specie ragionevolezza e proporzione, ma
anche dei principi di responsabilita' per il fatto,  di  personalita'
della responsabilita' penale e della finalita' rieducativa della pena
di cui rispettivamente agli articoli 25, comma 2 e 27, commi 1  e  3,
della Costituzione. 
    Infatti,  l'individualizzazione  del  trattamento   sanzionatorio
costituisce  evidente  attuazione  del  «mandato  costituzionale   di
"personalita'" della responsabilita' penale di cui all'art. 27, primo
comma, Cost.» (Corte cost., sentenza n. 222 del 2018);  al  contempo,
«...una pena  non  proporzionata  alla  gravita'  del  fatto  (e  non
percepita come tale dal condannato) si risolve in  un  ostacolo  alla
sua funzione rieducativa» (Corte cost., ult. cit.;  ma  v.  gia',  ex
multis, sentenza n. 236 del 2016 e n. 68 del 2012). E come  ormai  da
tempo la Corte, superando la  concezione  c.d.  polifunzionale  della
pena, ha inequivocabilmente affermato, il  rispetto  della  finalita'
rieducativa  della  pena  di  cui  all'art.   27,   comma   3   della
Costituzione,  implica  e  al  contempo  impone  un  «"principio   di
proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e
offesa, dall'altra» e, «lungi dal  rappresentare  una  mera  generica
tendenza riferita al solo  trattamento,  indica  invece  proprio  una
delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la  pena  nel
suo  contenuto  ontologico  e   l'accompagnano   da   quando   nasce,
nell'astratta previsione normativa, fino  a  quando  in  concreto  si
estingue» (Corte cost., sentenza n. 313 del 1990). 
    Il rispetto di tali principi, dunque,  impone  la  necessita'  di
calibrare specie e durata della sanzione, sia in sede  normativa  sia
in sede applicativa, alle reali necessita' rieducative  del  soggetto
destinatario della stessa, il quale, per poter scegliere  di  aderire
al  programma  di  trattamento  offerto,  deve   poter   innanzitutto
avvertite la pena inflitta come 'giusta', e non gia' come una inutile
sofferenza senza scopo. 
    Come,   da   ultimo,   la   giurisprudenza   costituzionale    ha
vigorosamente rimarcato  «...allorche'  le  pene  comminate  appaiano
manifestamente  sproporzionate  rispetto  alla  gravita'  del   fatto
previsto quale reato, si profila un contrasto con gli articoli 3 e 27
della Costituzione, giacche' una pena non proporzionata alla gravita'
del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex
multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del  1994).
I principi di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione «esigono di
contenere la privazione della liberta' e la sofferenza inflitta  alla
persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo  scopo  di
favorirne il cammino  di  recupero,  riparazione,  riconciliazione  e
reinserimento sociale» (sentenza  n.  179  del  2017)  in  vista  del
«Progressivo reinserimento armonico della persona nella societa', che
costituisce l'essenza della finalita'  rieducativa»  della  pena  (da
ultimo,  sentenza  n.  149  del  2018).  Al  raggiungimento  di  tale
impegnativo  obiettivo  posto  dai  principi  costituzionali  e'   di
ostacolo l'espiazione di una pena  oggettivamente  non  proporzionata
alla gravita'  del  fatto,  quindi,  soggettivamente  percepita  come
ingiusta  e  inutilmente  vessatoria  e,  dunque,  destinata  a   non
realizzare lo scopo  rieducativo  verso  cui  obbligatoriamente  deve
tendere» (sentenza n.  40  del  2019;  v.,  da  ultimo,  sentenza  n.
102/2020). 
    Ma, a ben vedere, l'ineludibile esigenza di proporzione, se  deve
caratterizzare  il  rapporto  tra  entita'  della  pena  comminata  e
irrogata, da un lato, e la gravita' del fatto (anche in  rapporto  al
suo autore), dall'altro,  non  puo'  che  imporsi  ugualmente,  ed  a
fortiori, allorche', come nel caso di specie, venga  in  rilievo  non
gia' il quantum, ma addirittura  e  in  radice  l'an  della  sanzione
penale, ricomprendendo cioe' i casi in cui ad  essere  sproporzionata
non sia l'entita' della  pena,  bensi'  il  fatto  stesso  della  sua
applicazione: invero, come da tempo la stessa Corte costituzionale ha
inequivocabilmente affermato «Il principio di  proporzionalita'  [va]
inteso non soltanto  quale  proporzione  tra  gravita'  del  fatto  e
sanzione  penale  bensi',  anche  e  soprattutto,   quale   'criterio
generale' di  congruenza  degli  strumenti  normativi  rispetto  alle
finalita' da perseguire» (Corte cost., sentenza n. 487 del  1989);  e
cio' «equivale a negare legittimita' alle incriminazioni  che,  anche
se  presumibilmente  idonee  a  raggiungere  finalita'  statuali   di
prevenzione, producono, attraverso la pena, danni  all'individuo  (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei  beni  e  valori  offesi  dalle  predette  incriminazioni
(sentenza n. 409 del 1989). 
    Ebbene, l'applicazione di una pena, anche minima, ad un  illecito
considerato di particolare tenuita' alla luce  dei  criteri  previsti
dallo stesso ordinamento, e dunque di essa non bisognoso, costituisce
una  reazione  sproporzionata  dell'ordinamento,  che   sacrifica   e
banalizza   la   liberta'   personale   dell'individuo,    dichiarata
«inviolabile» dall'art. 13 della Costituzione, a fronte di fatti  che
non dimostrano  alcun  reale  bisogno  di  pena:  la  sua  inflizione
realizza,  pertanto,  un  ingiustificato,  inutile  e   intollerabile
sacrificio della liberta' personale, in violazione  dei  principi  di
uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita', di personalita' della
responsabilita' penale e di rieducazione, oltre che di sussidiarieta'
del diritto penale o extrema ratio, il quale esige  che  la  sanzione
piu' grave di cui l'ordinamento dispone sia  attivata  esclusivamente
in relazione a fatti realmente bisognosi  di  pena,  in  mancanza  di
strumenti alternativi di tutela (cfr., per tutte, la sentenza n.  364
del 1988). 
    Piuttosto, l'applicazione di una pena sproporzionata  in  se'  in
quanto  non  necessaria  per  il  perseguimento  delle  finalita'  di
risocializzazione di  cui  all'art.  27,  comma  3  Cost.  assume  un
significato eminentemente  simbolico  (benche'  simbolici  non  siano
affatto i risultati concreti che essa produce sulle persone 'in carne
ed ossa'), essendo orientata all'esclusiva finalita'  politica  (piu'
che politico-criminale) di rimarcare e  'significare'  la  prevalenza
delle ragioni istituzionali connesse al  regolare  svolgimento  della
funzione amministrativa sulle garanzie individuali. 
    La  punizione  del  singolo  che  abbia  commesso  un  fatto   di
resistenza a pubblico ufficiale in concreto scarsamente offensivo,  e
dunque non bisognoso  di  pena,  appare  invero  funzionale  al  solo
obiettivo rimarcare il 'valore' dell'istituzione e la sua  (ritenuta)
incondizionata  preminenza  sull'individuo:  in  questo  modo   viene
tuttavia riproposta  quell'anacronistica  «concezione  autoritaria  e
sacrale delle istituzioni», viste come un bene  in  se'  e  non  gia'
quale strumento al servizio del cittadino, propria dello stato  etico
e di altre e passate stagioni politiche, che non  a  caso  la  stessa
Corte  costituzionale  si  e'  da  tempo  incaricata   di   giudicare
incompatibile con l'assetto  di  valori  sotteso  alla  Costituzione,
affermando  che  essa  «...e'  estranea  alla  coscienza  democratica
instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il  rapporto
tra amministrazione e societa' non e' un rapporto di imperio,  ma  un
rapporto strumentale  alla  cura  degli  interessi  di  quest'ultima»
(sentenza n. 341 del 1994; ma in termini analoghi si esprimono  anche
le sentenze n. 140 del 98 e n. 236 del 16). 
    La presunzione assoluta di non particolare  tenuita'  dell'offesa
sancita per il delitto di cui  all'art.  337  del  codice  penale  si
traduce dunque in una strumentalizzazione del singolo  per  finalita'
di politica-criminale, in quanto egli viene punito non  gia'  poiche'
il fatto-reato ha dimostrato il suo  bisogno  di  'rieducazione'  nel
senso di cui all'art.  27,  comma  3,  Cost.,  ma  al  solo  fine  di
riaffermare il valore della norma violata (secondo  le  note  cadenze
della   Normgeltungstheorie   di'   stampo    funzionalistico):    ma
l'assegnazione  alla  pena  della  mera  funzione  di  riaffermazione
simbolica del valore  della  norma  costituisce  una  violazione  dei
principi di responsabilita' per il  fatto  e  di  personalita'  della
responsabilita' penale di cui agli articoli 25, comma 2 e 27 comma  1
Cost., che esigono che ciascuno venga punito  esclusivamente  per  (e
nei limiti de) il fatto compiuto e non  per  finalita'  ulteriori  di
politica  criminale,   oltre   che,   ovviamente,   della   finalita'
rieducativa della pena, di cui all'art. 27, comma 3, Cost. 
    In definitiva, a giudizio  del  Tribunale,  non  diversamente  da
quanto avviene nel caso di applicazione di  una  pena  sproporzionata
rispetto alla gravita' del fatto, anche l'applicazione  di  una  pena
sproporzionata in se' in quanto irrogata a fronte di un fatto di essa
non bisognoso appare in contrasto con i principi di proporzionalita',
di  responsabilita'  per   il   fatto   e   di   personalita'   della
responsabilita' penale, nonche'  della  finalita'  rieducativa  della
pena, profilandosi cosi' una violazione, anche  sotto  tale  profilo,
dell'art. 3 della Costituzione, nonche' degli articoli 25, comma 2  e
27, commi 1 e 3 della Costituzione. 
    E', peraltro, appena il caso di rilevare, in conclusione, che  il
vizio in questa sede  denunciato  e',  sotto  tale  profilo,  diverso
rispetto  a  quello  in  passato  prospettato  da  altro  rimettente,
concernente  l'impossibilita'  di  applicare  l'art.  131-bis  codice
penale alla fattispecie attenuata di  ricettazione  di  cui  all'art.
648, comma 2, codice penale, risolto in senso  negativo  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 207 del 2017. 
    Infatti, la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  in
questa sede invocata non presupporrebbe  l'individuazione,  da  parte
della Corte, di un criterio  di  selezione  dei  fatti  astrattamente
suscettibili  di  essere  ritenuti  di   non   particolare   tenuita'
alternativo e diverso rispetto a quello previsto dal legislatore  (id
est, il limite massimo di pena detentiva pari a cinque anni),  ma  al
contrario proprio  la  valorizzazione  di  tale  criterio  selettivo,
indebitamente  compresso  dalla  novella  in  questa  sede  censurata
mediante  una  clausola  derogatoria  manifestamente   irragionevole:
un'eventuale  pronuncia  di  accoglimento,  infatti,   determinerebbe
esclusivamente la naturale riespansione  di  quel  criterio  generale
fissato dallo stesso legislatore. 

(1) [parola cosi' sostituita dal pubblico ministero, in  luogo  della
    precedente «rissa», all'udienza del 2 novembre 2019]. 

(2) Possono essere richiamate, in proposito, quali delitti puniti con
    pena  detentiva  non  superiore  nel  massimo  a   cinque   anni,
    numerosissime fattispecie, come ad esempio: articoli 314, comma 2
    (peculato d'uso), 319-quater (per chi da'  o  promette  denaro  o
    altra utilita'), 323 (abuso d'ufficio), 329 (rifiuto o ritardo di
    obbedienza commessi da un militare o da  un  agente  della  forza
    pubblica), 331 (interruzione di servizio di  pubblica  necessita'
    commesso  dall'esercente),  337-bis  (occultamento,  custodia   o
    alterazione  di  mezzi  di  trasporto),  346-bis   (traffico   di
    influenze  illecite),  342  (oltraggio  a  un   corpo   politico,
    amministrativo  o   giudiziario),   347   (usurpazione   funzioni
    pubbliche), 348  (esercizio  abusivo  di  una  professione),  349
    (violazione di sigilli), 351 (violazione della pubblica  custodia
    di cose), 353 e 353-bis (turbata liberta'  degli  incanti  e  del
    procedimento di scelta del contraente), 355 e 356  (inadempimento
    di contratti di pubbliche forniture e frode) del codice penale.