TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA Sezione penale Il Tribunale di Torre Annunziata, in composizione monocratica e nella persona del dott. Enrico Cantieri, all'esito della Camera di consiglio del 16 giugno 2020, ha pronunciato la seguente ordinanza, nel giudizio penale a carico di B.V.F., nato a........ il......, ivi res.te alla......., luogo del domicilio dichiarato; Libero - gia' presente; Difeso di fiducia dall'avv. Antonio De Martino del foro di Torre Annunziata; Imputato per il reato di cui: all'art. 337 codice penale, perche', a fronte dell'intervento di personale della locale polizia municipale e, precisamente, degli agenti S. E., S. A. e V. I., e dell'assistente capo C. M., accorsi presso il.........., sito a............, in quanto era stata segnalata una lite, nonche' del successivo intervento di personale della locale Compagnia dei carabinieri, per opporsi ad essi mentre compivano un atto del loro ufficio consistente negli accertamenti in ordine alla cennata lite (1) , rispettivamente, nel riportarlo alla calma atteso che stava inveendo contro due persone e contro gli stessi vigili urbani, usava minaccia profferendo reiteratamente all'indirizzo di questi ultimi le seguenti parole: «Andate via, non e' successo nulla. Ve ne dovete andare tutti... Te schiatto 'a capa si nun te ne vaje...o schiattemi se tien 'e palle», per poi afferrare due bottiglie di birra rompendole e puntando i cocci contro gli stessi vigili urbani, dicendo ancora che dovevano andare tutti via, finche', sopraggiunto il brigadiere dei carabinieri D.E. L., lo minacciava dicendogli che si doveva allontanare altrimenti gliel'avrebbe fatta pagare ed usava violenza contro di lui strattonandolo piu' volte fino a rovinare a terra entrambi, ed ancora, una volta rialzato, usava ulteriore violenta contro gli operanti sferrando calci; in...... novembre 2019 per sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 1, lettera b) del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, come convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 2019, n. 77, nella parte in cui, modificando l'art. 131-bis, comma 2, codice penale, prevede che l'offesa non puo' essere ritenuta di particolare tenuita' nel caso di cui all'art. 337 codice penale, quando il reato e' commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, per violazione degli articoli 3, 25 comma 2, 27, commi 1 e 3, 77 della Costituzione. 1. Svolgimento del processo. All'udienza del 2 novembre 2019 B. V. F. e' stato presentato in stato di arresto da personale della Compagnia dei Carabinieri di........ per la convalida ed il contestuale giudizio direttissimo, sulla base della contestazione formulata dal pubblico ministero. Sentita la relazione orale dell'agente di polizia giudiziaria che aveva proceduto all'arresto, sentito l'arrestato, il giudice ha convalidato l'arresto e ha rigettato la richiesta di misura cautelare formulata dal pubblico ministero per carenza di esigenze cautelari. Dopo la convalida, il Giudice ha quindi disposto procedersi al giudizio direttissimo, avvisando l'imputato della facolta' di chiedere la definizione del giudizio con un rito alternativo, salva in ogni caso la facolta' di chiedere un termine a difesa. L'imputato, assistito dal proprio difensore, ha chiesto un termine a difesa. Alla successiva udienza del 10 dicembre 2019 il difensore, munito di procura speciale, ha chiesto la definizione del giudizio nelle forme del rito abbreviato. Il Tribunale ha ammesso il rito, ha acquisito il fascicolo del pubblico ministero e ha rinviato per la discussione. L'udienza del 3 marzo 2020, fissata per la discussione, e' stata rinviata d'ufficio, su disposizione della Presidenza del Tribunale, per ragioni di sanita' pubblica; quella successiva, fissata per il 3 aprile 2020, e' stata rinviata ai sensi dell'art. 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18. All'udienza del 16 giugno 2020 il Tribunale ha invitato le parti a formulare le rispettive conclusioni e si e' ritirato in Camera di consiglio. All'esito della stessa, prima di pronunciarsi nel merito dell'imputazione, ritiene il tribunale di dover sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale che di seguito si esporra', e dunque sospendere il procedimento e trasmettere gli atti alla Corte costituzionale per la sua risoluzione. 2. La rilevanza della questione. 2.1. Il fatto storico F. Dagli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e da quelli inerenti all'udienza di convalida, utilizzabili ai fini della decisione in virtu' del rito prescelto dall'imputato, il fatto sottoposto al vaglio di questo Tribunale deve essere ricostruito nei termini che seguono. In data novembre 2019, alle ore 20,25 circa, personale della polizia municipale di........... nel transitare al........... della medesima citta' a bordo di un'auto di servizio, fu avvicinato da un uomo, il quale riferi' che, all'interno del bar «Viviani», poco distante, era in corso una rissa. Una volta entrati nel bar, gli agenti tuttavia trovarono soltanto il barista e un ragazzo - poi identificato nell'odierno imputato B. V. F. - che, con escoriazioni ed ecchimosi al volto, camminava nervosamente in evidente stato di agitazione. Quindi, gli operatori gli si avvicinarono per chiedergli cosa fosse successo, ma il F. , con modi bruschi, intimo' loro di andare via; infastidito dall'insistenza dei vigili urbani, egli li minaccio' dicendo reiteratamente: «andate via, non e' successo nulla e ve ne dovete andare tutti... te schiatto 'a capa si nun te ne vaje...o schiatteme si tien' 'e ppalle»; quindi, prese dal frigorifero due bottiglie di birra, le ruppe privandole del fondo, e le agito' all'indirizzo degli operanti, continuando a minacciarli con analoghe espressioni. Quindi, riuscito ad uscire dal bar, sempre con le bottiglie in mano, invei' contro i numerosi presenti, inclusi alcuni suoi parenti che nel frattempo erano accorsi e avevano provato ad invitarlo alla calma, per poi lanciare in aria due sedie e i cocci delle bottiglie che aveva in mano. In quel frangente giunse una volante della Compagnia dei Carabinieri di Castellammare di Stabia, chiamata in ausilio, e composta dall'App. M. A. e dal Brig. L. D. A. Poiche', peraltro, vi era molto traffico, l' A. , rimase in auto, e il D.E. si incammino' a piedi: una volta giunto al bar....., egli noto' il F. in stato di forte agitazione che inveiva all'indirizzo degli astanti che provavano a calmarlo. Quindi, il D.E. , gli si avvicino' e provo' a bloccarlo, ma il F. dapprima gli intimo' di allontanarsi, minacciandolo che altrimenti 'gliel'avrebbe fatta pagare', e poi, una volta che il D.E. lo ebbe immobilizzato, lo spinse e lo strattono', sicche' entrambi caddero a terra. In quel momento sopraggiunse l'App. A. a bordo dell'auto di servizio, insieme con due operatori del reparto motociclisti della polizia municipale: tutti insieme riuscirono a bloccare ed ammanettare il F. , nonostante questi sferrasse calci all'indirizzo degli operanti per sottrarsi alla presa. Il F. fu dunque portato presso gli Uffici della Compagnia per l'identificazione, ove si calmo' immediatamente e mostro' un atteggiamento ampiamente collaborativo; fu accertato che lo stesso era sottoposto alla misura alternativa dell'affidamento in prova ai servizi sociali, e fu arrestato per il reato di cui all'art. 337 c.p. Il barista C. A., in sede di sommarie informazioni, oltre a confermare la versione dell'accaduto riversata negli atti di polizia giudiziaria, ha dichiarato che l'intervento dei vigili urbani era stato determinato dal fatto che tra il F. - da lui conosciuto soltanto di vista - e un altro uomo che, insieme alla propria moglie, si trovava all'esterno del bar, era scoppiata all'improvviso un'animata e turbolenta discussione. Il F. , sottopostosi ad interrogatorio, ha ammesso pienamente gli addebiti, confermando la versione resa dagli operanti di polizia giudiziaria e il diverbio occorso con l'uomo e la donna all'esterno del bar poco prima dell'intervento dei vigili. Egli ha peraltro spiegato che la sua veemente e spropositata reazione nei confronti della polizia giudiziaria intervenuta era stata determinata dalla rabbia di essersi sentito ingiustamente accusato ed 'etichettato', dal momento che i vigili avevano concentrato la loro attenzione esclusivamente di lui, tentando di fermarlo e immobilizzarlo, soltanto in ragione di un pregiudizio personale, ma non avevano fatto altrettanto nei confronti dell'uomo con cui aveva avuto poco prima la discussione, che era oltretutto sfociata in un'aggressione fisica reciproca, tant'e' che lui stesso aveva riportato ecchimosi e tumefazioni in volto. 2.2. La qualificazione giuridica del fatto ai sensi della fattispecie di cui all'art. 337 c.p. Ritiene il Tribunale che il fatto, cosi come ricostruito, sia pienamente sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui all'art. 337 del codice penale ipotizzata dall'Ufficio del pubblico ministero. Quanto alla fattispecie oggettiva del delitto in questione, non vi e' dubbio che la frase «te schiatto 'a capa si nun te ne vaje», proferita all'indirizzo degli agenti della polizia municipale intervenuti per sedare la lite, e quella 'te la faccio pagare', indirizzata al Brig. dei Carabinieri - D.E. (pubblici ufficiali nell'esercizio delle proprie funzioni ai sensi dell'art. 357 c.p.) siano da qualificarsi quali minacce; ne' vi e' dubbio che tali espressioni, per essere state proferite in una situazione di eccezionale concitazione da una persona evidentemente e particolarmente agitata e quantomeno in apparenza violenta (benche' caratterizzate, come subito si dira', da modestissimo rilievo offensivo) fossero dotate di quel sufficiente grado di credibilita' e serieta' da rientrare nella nozione di minaccia penalmente rilevante (sul punto cfr., ex multis, Cassazione pen., sez. 2, sentenza n. 21974/2017); al contempo risulta parimenti provato che il F. abbia poco dopo strattonato e spintonato il Brig. D.E. , atti senz'altro qualificabili in termini di violenza (sia pur anch'essi di modestissima entita'). Tali minacce e violenze sono state inoltre poste in essere all'indirizzo dei suddetti pubblici ufficiali mentre essi compievano atti del loro ufficio, consistenti nel cercare di riportarlo alla calma e di porre fine al suo stato di agitazione, nell'accertare quanto accaduto poco prima relativamente alla lite segnalata e nell'identificare le persone coinvolte, anche al fine di acquisire eventuali notizie di reato e compiere gli adempimenti conseguenti, ai sensi degli articoli 55 e 347 c.p.p. Sussiste, infine, anche una concreta offesa ai beni giuridici tutelati dalla fattispecie incriminatrice in questione, atteso che le condotte del F. hanno compresso, sia pure per un ristrettissimo lasso temporale, il regolare e sereno esercizio della funzione pubblica svolta dai pubblici ufficiali destinatari della condotta (su tale bene giuridico quale oggetto di tutela del delitto di cui all'art. 337 del codice penale cfr. Cassazione pen., Sez. un., sentenza n. 40981/2018), ritardando, seppur di poco, e tendendo piu' gravoso il compimento degli atti del loro ufficio; e cio' mediante la coartazione, sia pur momentanea, di quella libera autodeterminazione delle persone fisiche preposte all'esercizio della pubblica funzione (di polizia di prevenzione e, al contempo, di polizia giudiziaria), che del regolare funzionamento della pubblica amministrazione costituisce parte integrante (ancora, in termini, Cassazione pen., Sez. un., sez. ult. cit). Quanto alla fattispecie soggettiva, sussiste il dolo specifico richiesto, giacche' il F. non soltanto era pienamente consapevole della qualita' di pubblici ufficiali degli operanti, che erano in divisa, ma ha anche volontariamente agito - come gia' detto - al precipuo fine di opporsi ai loro atti. Dagli atti utilizzabili ai fini della decisione non emerge, infine, che il descritto comportamento abbia costituito una reazione ad eventuali atti arbitrari degli stessi pubblici ufficiali, sicche' non sussistono i presupposti per la riconduzione dello stesso nell'alveo dell'esimente di cui all'art. 393-bis c.p. Osserva inoltre il Tribunale che, pur potendosi considerare unica l'azione posta in essere dal F. in ragione dell'omogeneita' degli atti, dell'unicita' di contesto spazio-temporale in cui gli stessi sono stati posti in essere e del fine perseguito dall'agente [cfr., proprio in tema di resistenza a pubblico ufficiale, Cassazione pen., Sez. un., sentenza n. 40981/2018, in cui, aderendo alla tesi dottrinale del concetto 'normativo-sociale' di azione, si afferma che «Nel concetto di azione unica vanno ricompresi tanto i casi in cui l'azione si risolva in un «atto unico» (conforme alla condotta normativamente prevista), quanto i casi in cui l'azione si realizzi attraverso il compimento di una «pluralita' di atti» che siano contestuali nello spazio e nel tempo ed abbiano fine unico], due devono ritenersi i fatti-reato configurabili nella specie, e (al di la' dell'irrilevante impiego del sostantivo «reato» al singolare anziche' al plurale) in fatto descritti nella complessa imputazione formulata dall'Ufficio del pubblico ministero: infatti, come affermato dalle Sezioni unite della Cassazione, con decisione pienamente condivisa dal tribunale, «In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un concorso formale di reati, a norma dell'art. 81, comma primo, codice penale, la condotta di chi, nel medesimo contesto fattuale, usa violenza o minaccia per opporsi a piu' pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio» (Cass. pen., Sez. un., sentenza ult. cit.). 2.3. La sussistenza, in concreto, dei presupposti della particolare tenuita' dell'offesa e della non abitualita' del comportamento (art. 131-bis c.p.). Nondimeno, ritiene il Tribunale che sussistano nel caso di specie gli indici-criteri della particolare tenuita' dell'offesa e della non abitualita' del comportamento richiesti dall'art. 131-bis codice penale ai fini del riconoscimento della causa di non punibilita' della particolare tenuita' del fitto ivi prevista. Quanto al primo indice, di natura oggettiva, della particolare tenuita' dell'offesa, va infatti rilevato che il danno arrecato al regolare funzionamento della pubblica amministrazione, bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 337 del codice penale, pur sussistente secondo quanto si e' rilevato supra, deve al contempo considerarsi particolarmente esiguo: infatti, sia le minacce rivolte in un primo momento agli agenti della polizia locale, sia quelle successivamente indirizzate al brigadiere D.A. (rispettivamente «te schiatto 'a capa» e 'te la faccio pagare'), analogamente alla modestissima violenza commessa ai suoi danni (uno spintone), erano dotate di una carica intimidatoria particolarmente esigua, hanno determinato un soltanto momentaneo e transeunte turbamento della libera autodeterminazione dei pubblici ufficiali cui sono state rivolte e, di conseguenza, complessivamente una modestissima compromissione del regolare svolgimento della pubblica funzione (di polizia di prevenzione e di polizia giudiziaria): lo stesso ufficiale di polizia giudiziaria che ha relazionato in merito all'arresto ha infatti dichiarato che il F. e' subito tornato alla calma, sicche' il ritardo e la maggiore difficolta' nel compimento degli atti d'ufficio sono stati davvero minimi, poiche' egli e' stato immediatamente immobilizzato dai Carabinieri intervenuti a sostegno dei vigili, e condotto presso gli uffici della Compagnia per gli accertamenti di rito, all'esito dei quali e' stato tratto in arresto. Analogamente, non appaiono particolarmente allarmanti le modalita' della condotta, e cio' alla luce sia del fatto che l'obiettivo principale del F. non erano gli operanti, bensi' la persona con cui poco prima aveva avuto una lite, sia del fatto che - come spiegato dallo stesso in sede di interrogatorio di convalida - si era trattato di un accesso di rabbia dovuto alla sensazione di star subendo un'ingiusta discriminazione da parte delle forze dell'ordine, che si erano concentrate esclusivamente su di lui e non anche sull'altro uomo con cui egli poco prima aveva avuto la lite e da cui pure era stato aggredito. La stessa circostanza, pur descritta nell'imputazione, secondo cui egli aveva puntato i cocci di bottiglia all'indirizzo degli operanti per minacciarli, si e' rivelata infondata, desumendosi infatti dagli atti e dalla relazione orale dell'ufficiale di polizia giudiziaria che egli, lungi dal puntarli contro qualcuno, li agitava in aria gesticolando in modo concitato. D'altro canto, come si e' gia' detto, una volta immobilizzato, il F. ha assunto un atteggiamento di ampia e totale collaborazione con gli operanti, cui egli - una volta portato presso i relativi uffici - ha subito spiegato il motivo della sua rabbia. Non sussiste, dunque, neppure alcuno degli indici presuntivi di........ comma 2, codice penale, idonei ad escludere la qualificazione dell'offesa in termini di particolare tenuita' (motivi abietti o futili, crudelta' o sevizie, minorata difesa della vittima, eventi di morte o lesioni gravissime). Sotto tale primo profilo deve ritenersi, in definitiva, che si e' trattato di una reazione scomposta e sproporzionata di un soggetto in evidente stato di alterazione, di breve durata e di scarsa entita', e che dunque si e' risolta in un'offesa decisamente lieve ai beni giuridici tutelati dalla fattispecie criminosa in questione. Quanto al secondo indice, di natura soggettiva, della non abitualita' del comportamento, non risulta agli atti che il F. abbia gia' in passato commesso condotte della medesima indole, o comunque a questa analoghe o assimilabili, ne' tantomeno abbia gia' altrimenti beneficiato della causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale. Non risultano carichi pendenti, ma - secondo quanto dichiarato dallo stesso arrestato in sede di domande preliminari all'interrogatorio ex articoli 66 del codice di procedura penale e 21 disposizioni di attuazione del codice di procedura penale (egli risulta infatti incensurato dal certificato del casellario giudiziario) - soltanto una condanna definitiva per il delitto di cui all'art. 73, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, dunque non ostativa ai fini che in questa sede interessano. Ne' osta alla qualificazione in termini di non abitualita' del comportamento la disposizione di cui all'art. 131-bis, comma 3, codice penale, secondo cui «Il comportamento e' abituale nel caso in cui l'autore... abbia commesso piu' reati della stessa indole...nonche' nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate». Ed invero, quanto all'elemento ostativo della pluralita', abitualita' o reiterazione delle condotte, si e' gia' osservato che nel caso di specie, pur al cospetto di plurimi atti di minaccia e violenza, deve ritenersi sussistente non gia' una pluralita', bensi' un'«unicita' di azione» - pur composta da piu' atti - configurandosi cosi' un'ipotesi di concorso formale, e non gia' materiale, di reati. Quanto, invece, all'ulteriore elemento ostativo della pluralita' di reati, per definizione intrinseca all'ipotesi del concorso formale, condivide pienamente il Tribunale quell'orientamento di legittimita' secondo cui «La dichiarazione di non punibilita' per particolar e tenuita' del fatto non e' preclusa dalla presenza di piu' reati legati dal vincolo del concorso formale, poiche' questo istituto non implica l'abitualita' del comportamento... ed invero, «...il fatto che la disposizione rivolga l'attenzione al soggetto che abbia «commesso piu' reati» consentirebbe di includere il concorso formale se si intendesse l'espressione come riferita al risultato della condotta ed, invece, di escluderlo se si intende riferito all'unica azione od omissione che ha poi comportato la violazione di diverse disposizioni di legge, ovvero la commissione di piu' violazioni della medesima disposizione. Tale ultima soluzione risulta maggiormente plausibile, considerando che la stessa conformazione dell'art. 81 cod pen. mal si attaglia a situazioni, quali quelle considerate dal terzo comma dell'art. 131-bis cod. pen., che il legislatore considera comunque sintomatiche di quella «abitualita'», seppure largamente intesa, impeditiva della declaratoria di particolare tenuita', difficilmente confrontabile con una condotta unica, seppure produttiva di plurime violazioni di legge» (cfr., per tutte, Cassazione pen., sez. 3, sentenza n. 47039/2015). In altri termini, la ricorrenza di un concorso formale tra reati, in quanto espressione di un'unicita' di risoluzione criminosa, non e' di per se' condizione ostativa alla configurazione della non abitualita' del comportamento, sotto il profilo della reiterazione di «reati della stessa indole», di cui all'art. 131-bis, comma 3, codice penale, dovendosi per tale intendere la reiterazione in diversi contesti del medesimo reato, frutto di distinte risoluzioni criminose dell'agente: al contrario, casi come quello per cui si procede sono caratterizzati da un'unicita' di azione e di contesto spazio-temporale degli atti che la compongono, e dunque da un'unitarieta' del disvalore espresso dai piu' reati in concorso formale tra loro. Il disvalore connesso ai reati commessi dall'imputato attiene ad una porzione fattuale che, sebbene scomposta secondo il giudizio normativa dell'ordinamento in diverse ipotesi di reato, appare unitaria nella dinamica concreta degli eventi, e non e' tale da fondare un giudizio di abitualita' nel reato ostativo ad una pronuncia ex art. 131-bis c.p. In definitiva sussistono, nel caso di specie, tutti i presupposti normativi che consentirebbero l'applicazione della causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale, giacche' il delitto di cui all'art. 337 del codice penale e' punito con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, l'offesa e' di particolare tenuita' e il comportamento non e' abituale. 2.4. La preclusione all'applicazione della causa di non punibilita' della particolare tenuita' del fatto al delitto di cui all'art. 337 del codice penale, introdotta dall'art. 16, comma 1, lettera b) del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, come convertito e modificato dalla legge 8 agosto 2019, n. 77. L'applicazione della causa di non punibilita' in questione al caso di specie e' tuttavia preclusa dal disposto dell'art. 131-bis, comma 2, codice penale, come modificato da ultimo dall'art. 16, comma 1, lettera b) del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 2019, n. 77, nella parte in cui prevede che «L'offesa non puo' altresi' essere ritenuta di particolare tenuita'...nei casi di cui agli articoli...337 ...quando il reato e' commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni». Tale disposizione, precludendo in radice la possibilita' che il giudice consideri l'offesa arrecata in concreto da un fatto-reato sussumibile nella fattispecie - tra le altre - di cui all'art. 337 del codice penale, introduce evidentemente una presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa ulteriore (e diversa, come pure meglio si dira'), rispetto a quelle supra evidenziate e gia' previste al comma 2 dell'art. 131-bis del codice penale, allorche' tale reato sia commesso nei confronti di un pubblico ufficiale (resta ferma, dunque, la possibilita' di tale configurazione nel caso di incaricato di pubblico servizio). In altri termini, con tale disposizione il legislatore ha inteso privare il giudice di ogni margine di discrezionalita' nella valutazione dell'offesa, impedendogli, sempre e in ogni caso, di ritenere di particolare tenuita' l'offesa arrecata dal delitto di cui all'art. 337 del codice penale, commesso nei confronti di un pubblico ufficiale, in ogni sua possibile modalita' concreta di manifestazione. Per tali ragioni, e' in definitiva rilevante nel presente giudizio la questione di legittimita' costituzionale di tale disposizione, giacche' questa costituisce l'unico ostacolo all'applicazione della causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis codice penale al fatto per cui si procede ove questa venisse dichiarata costituzionalmente illegittima, il fatto posto in essere dal F. , per le ragioni in precedenza addotte, potrebbe dunque essere senz'altro considerato di particolare tenuita'. 2.4.1. Impossibilita' di un'interpretazione alternativa della disposizione di legge censurata. E' appena il caso di rilevare, infine, che la chiarezza e l'univoca perentorieta' della disposizione non ne consentono un'interpretazione diversa da quella qui prospettata e immune dalle censure che verranno di seguito esposte: in altri termini, l'impiego del verbo al modo indicativo e del verbo 'potere', preceduto dalla locuzione 'non' costituisce un indice evidente della natura assoluta e non soltanto relativa della presunzione, che dunque non ammette eccezioni e non puo' essere superata in via interpretativa. 3. La non manifesta infondatezza della questione. Tanto premesso in punto di rilevanza della questione, ritiene il Tribunale che la disposizione in esame violi gli articoli 77, comma 2, 3, 25, comma 2, 27, commi 1 e 3 della Costituzione per motivi che di seguito si esporranno. 3.1. Violazione dell'art. 77, comma 2, della Costituzione. 3.1.1. Innanzitutto, la disposizione censurata appare in contrasto con l'art. 77, comma 2, della Costituzione in quanto non e' omogenea, quanto ad oggetto e finalita', rispetto al contenuto originario del decreto-legge nel cui corpo e' stata inserita. La presunzione di non particolare tenuita' dell'offesa nei casi di cui all'art. 337 del codice penale e' stata infatti introdotta soltanto in sede di conversione del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, approvato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica: l'originaria formulazione dell'art. 16, comma 1, lettera b) del provvedimento si limitava, infatti, ad escludere la configurabilita' della causa di non punibilita' in questione «...quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive». Orbene, com'e' noto, i limiti di emendabilita' del decreto-legge ad opera della legge di conversione sono stati tracciati, soprattutto negli ultimi anni, da una copiosa e significativa giurisprudenza costituzionale. La Corte costituzionale, dopo aver rivendicato la propria competenza a sindacare la sussistenza (sia pure nei limiti dell'«evidente carenza») dei presupposti di straordinaria necessita' e urgenza di cui all'art. 77, comma 2, della Costituzione (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che uno dei principali indici sintomatici dell'assenza di tali presupposti e' rappresentato dalla disomogeneita' materiale e/o funzionale tra le disposizioni contenute in un decreto-legge: infatti, «la urgente necessita' del provvedere puo' riguardare una pluralita' di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall'intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all'unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare»; da cio' deriva che «la semplice immissione di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per da' solo, alla stessa il carattere da' urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o da' finalita'»; al contrario, «l'inserimento da' norme eterogenee all'oggetto o alla finalita' del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell'urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge», di cui alla norma costituzionale citata. Il presupposto del "caso" straordinario di necessita' e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativa fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno»: in tal caso, il decreto-legge, «inteso come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo», si trasforma «in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualita' temporale» (sentenza n. 22 del 2012; v. pure gia' sentenza n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008). Per le medesime ragioni la Corte, superando un proprio precedente e meno restrittivo orientamento, ha poi affermato che il requisito della omogeneita' deve essere rispettato non soltanto dal decreto, ma anche dalla legge di conversione; quest'ultima, infatti, si configura quale «legge a competenza tipica» (sentenza n. 32 del 2014), attesa l'esistenza di «un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario» (ancora, sentenza n. 22 del 2012), la cui lesione, determinata dall'inserimento nella legge di conversione di norme estranee all'oggetto o alla finalita' del decreto-legge, costituisce non gia' un sintomo dell'assenza dei presupposti di necessita' e urgenza, bensi' un'autonoma violazione dell'art. 77, comma 2, Cost. che scaturisce dall'uso illegittimo, da parte del Parlamento, del potere di conversione che la Costituzione gli attribuisce. Piu' specificamente, la Corte ha osservato che «La legge di conversione e' fonte funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge ed e' caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario (sentenza n. 247 del 2019): essa, pertanto, essendo una «legge funzionalizzata e specializzata»...non puo' aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico» (sentenza n. 32 del 2014). Sicche', se il legame essenziale tra decretazione d'urgenza e potere di conversione viene spezzato «...la violazione dell'art. 77, secondo comma, della Costituzione, non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessita' e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l'uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalita' di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge» (ancora, sentenza n. 22 del 2012; ma v. pure ordinanza n. 34 del 2013 e sentenza n. 32 del 2014); lo scrutinio relativo alla evidente carenza, o meno, di tali presupposti rispetto alle nuove norme, rilevera' invece, in via subordinata, soltanto nel caso in cui le norme «...aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge... non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d'urgenza; mentre tale valutazione non e' richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto» (sentenza n. 355 del 2010). Tanto premesso in via generale, a giudizio del Tribunale la presunzione assoluta di non punibilita' in questa sede cesurata, introdotta soltanto in sede di conversione con l'aggiunta di un periodo finale all'art. 16, comma 1, lettera b) del decreto-legge, risulta manifestamente estranea, sia dal punto di vista oggettivo e materiale, sia dal punto di vista funzionale e finalistico, al contenuto originario del provvedimento. In proposito va rilevato che il decreto-legge in questione e' composto di tre capi: il capo I (articoli da 1 a 7) concernente «Disposizioni urgenti in materia di contrasto all'immigrazione illegale e di ordine e sicurezza pubblica»; il capo II (articoli da 8 a 12) concernente «Disposizioni urgenti per il potenziamento dell'efficacia dell'azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza»; il capo III, che piu' da vicino ci occupa in questa sede (articoli da 13 a 18), concernente infine «Disposizioni urgenti in materia di contrasto alla violenza in occasione di manifestazioni sportive». Ebbene, come gia' e' agevole evincersi dalle relative rubriche, i primi due capi non contenevano (e tuttora non contengono) alcun riferimento all'art. 131-bis del codice penale o al reato di cui all'art. 337 del codice penale: rispetto ad essi la disposizione in questa sede censurata risulta del tutto estranea sia dal punto di vista del contenuto, sia dal punto di vista delle finalita', non essendo, per la radicale eterogeneita' delle materie trattate, neppure astrattamente ipotizzabile un qualsivoglia collegamento contenutistico e/o finalistico. L'ultimo capo comprende invece alcune disposizioni in materia di violenze commesse in occasione di manifestazioni sportive ispirate dalla comune ratio politico-criminale di inasprirne il trattamento giuridico. In particolare, e a titolo meramente esemplificativo, l'art. 13 interviene sulla legge n. 401/1989 e sul decreto-legge n. 8/2007, specificando ed ampliando i presupposti applicativi del c.d. DASPO; l'art. 14 modifica l'art. 77 del decreto legislativo n. 159/2011 (c.d. codice antimafia), estendendo l'applicabilita' del fermo di indiziato di delitto ai reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, a prescindere dai limiti edittali delle singole fattispecie ipotizzabili; l'art. 15 rende definitivamente permanente la disciplina del c.d. «arresto differito» per i reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive previsto dal decreto-legge n. 14/2017, convertito con modificazioni nella legge n. 48/2017; l'art. 17 estende l'ambito di applicabilita' delle sanzioni amministrative previste per il c.d. bagarinaggio. Proprio in questo identico ambito si muoveva, effettivamente, l'art. 16 nella sua originaria formulazione, rubricato «Modifiche agli articoli 61 e 139-bis del codice penale», in quanto, da un lato, intervenendo sull'art. 61 codice penale, introduceva al nuovo n. 11-septies) codice penale la circostanza aggravante comune del «l'avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive o durante i trasferimenti da o verso il luoghi in cui i svolgono dette manifestazioni»; dall'altro, come si e' anticipato, intervenendo sull'art. 131-bis del codice penale, introduceva un'ulteriore presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa «...quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive»: entrambe le disposizioni, dunque, si limitavano ad inasprire il trattamento sanzionatorio degli illeciti commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, esattamente come le altre disposizioni contenute nel medesimo capo. Orbene, a giudizio del Tribunale tale disposizione, che pure faceva in qualche modo riferimento all'istituto di cui all'art. 131-bis codice penale, non e' sufficiente a determinare un collegamento tra il contenuto originario del decreto e la disposizione in questa sede censurata tale da assicurare il necessario requisito di omogeneita', giacche' quest'ultima non si riferisce soltanto agli illeciti commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ma e' applicabile a qualsivoglia forma di manifestazione del reato di cui all'art. 337 c.p. L'inserimento in sede di conversione, accanto all'originaria disposizione derogatoria, dell'ulteriore presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa in relazione - tra gli altri - al reato di cui all'art. 337 del codice penale a prescindere da ogni collegamento con gli illeciti commessi in occasione di manifestazioni sportive costituisce un elemento radicalmente innovativo e del tutto estraneo alla materia e alle finalita' originarie del decreto. Infatti, esso non soltanto non nulla ha a che vedere con alcuna delle tre macro-materie da esso originariamente regolate, suddivise nei tre capi in cui si articola il decreto, ma non presenta alcun legame neppure con la disposizione dello stesso art. 16, nella sua formulazione originaria, che pure in qualche modo faceva riferimento all'art. 131-bis codice penale: invero, la nuova norma derogatoria - come meglio si dira' in prosieguo - lungi dal riferirsi ai soli casi di resistenza a pubblico ufficiale commessa «in occasione o a causa di manifestazioni sportive», si caratterizza invece per una portata generalizzata ed onnicomprensiva, in quanto e' idonea a ricomprendere qualsivoglia forma e tipo di resistenza commessa nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, a prescindere dalle specifiche peculiarita' del caso concreto e dall'essere la stessa posta in essere in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Si tratta, in sostanza, di una vera e propria novella legislativa che interviene in modo radicale e del tutto innovativo sulla generale disciplina «a regime» dell'art. 131-bis del codice penale, sorretta oltretutto da finalita' politico-criminali che nulla hanno a che vedere con il contrasto delle forme di violenza commesse in occasione di manifestazioni sportive (ne' tantomeno, ovviamente, con il 'contrasto all'immigrazione clandestina' o con il 'potenziamento dell'efficacia dell'azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza', di cui ai capi I e II del decreto), e che dunque, per essere «del tutto slegata da contingenze particolari», ne' dettata dall'esigenza di regolare «situazioni gia' esistenti e bisognose di urgente intervento normativo», vale a dire dall'«esigenza di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a creare» (sentenza n. 22 del 2012), ma avente ad oggetto, al contrario, una regolamentazione restrittiva degli ordinari presupposti di applicabilita' di una causa di non punibilita', appare manifestamente inconferente rispetto alle materie oggetto del decreto e, per cio' solo, in contrasto con l'art. 77, comma 2, della Costituzione. D'altro canto, e' appena il caso di rilevare, in conclusione, che l'eterogeneita' tra la legge di conversione e l'originario contenuto del decreto, oltre che essere rilevata da numerosi contributi dottrinari, fu sottolineata anche dal Presidente della Repubblica, il quale, contestualmente alla promulgazione della legge di conversione, in una lettera dell'8 agosto 2019 indirizzata ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio, ebbe a rilevare che «I contenuti del provvedimento appena promulgato sono stati, in sede di conversione, ampiamente modificati dal Parlamento e non sempre in modo del tutto omogeneo rispetto a quelli originari del decreto-legge presentato dal Governo»: per quanto ampia, ed evidentemente riferita anche ad altre disposizioni introdotte ex novo nel testo della legge di conversione (cfr. le rilevanti e radicali modifiche apportate all'art. 2, nonche' l'introduzione degli articoli 3-bis, 8-bis, 8-ter, 8-quater, 10-bis, 12-bis, 12-ter, 16-bis, 17-bis), tale osservazione non poteva che riferirsi, e ben si attaglia, anche alla disposizione in questa sede censurata. 3.1.2. In via subordinata, ove la Corte costituzionale dovesse invece ritenere che la disposizione di cui si lamenta l'illegittimita' costituzionale non sia del tutto estranea rispetto contenuto originario del decreto-legge, dovrebbe allora essere effettuata anche per essa, in ossequio alla medesima giurisprudenza costituzionale sopra ampiamente richiamata, la valutazione in merito alla sussistenza dei presupposti fattuali di necessita' e urgenza: infatti, come la Corte ha avuto modo di chiarire in piu' occasioni (v. soprattutto sentenze n. 355 del 2010, n. 22 del 2012 e n. 247 del 2019) tutte le norme del decreto-legge, e dunque pure quelle introdotte in sede di conversione 'non del tutto estranee' al contenuto o alle finalita' dell'originario decreto, devono. essere assistite dal presupposto dell''urgente necessita' del provvedere', di cui all'art. 77, comma 2, della Costituzione; questo, inoltre, deve essere necessariamente unico per ciascun decreto-legge, quale 'provvedimento normativa fornito di intrinseca coerenza'. D'altra parte, come la Corte costituzionale ha avuto modo di rimarcare, una volta chiarita la necessaria sussistenza di un nesso di interrelazione contenutistica o funzionale tra legge di conversione e decreto-legge, il rigoroso rispetto, da parte del Governo, del presupposto di necessita' e urgenza assume vieppiu' un rilievo fondamentale nel garantire l'ordinario riparto di competenze tra organo legislativo ed esecutivo stabilito dalla Costituzione e caratterizzante la stessa forma di Governo (sentenza n. 171 del 2007): invero, «Il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo - stabilendo il contenuto del decreto-legge - sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pur indirettamente, i confini del potere di emendamento parlamentare. E, anche sotto questo profilo, gli equilibri che la Carta fondamentale instaura ira Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilita', per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessita' e urgenza di cui all'art. 77 Cost. (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007)» (sentenza n. 154 del 2015). Ebbene, a giudizio del Tribunale il difetto dei presupposti di necessita' cd urgenza alla base del decreto in questione, e dunque anche della disposizione di cui all'art. 16, comma 1, lettera b), e' «evidente» (nel senso indicato soprattutto a partire dalla sentenza n. 171 del 2007, sopra citata). Innanzitutto, tale carenza si desume dalla radicale eterogeneita' delle materie oggetto di intervento, dall'assenza di un'unitaria finalita' che riconduca ad unita' (se non contenutistica, quantomeno) teleologica tali diverse ed eterogenee materie, nonche' dalla totale assenza, al momento dell'approvazione del decreto, di una qualche 'eccezionale e straordinaria situazione di fatto bisognosa di un urgente intervento normativo'. Basta semplicemente porre mente alle rubriche dei capi in cui l'atto normativo e' suddiviso per rendersi conto che le numerose disposizioni contenute nel decreto non soltanto non rispettano il requisito della comunanza dell'oggetto, in quanto sono riconducibili a materie radicalmente eterogenee, ma non appaiono neppure caratterizzate da quella intrinseca coerenza funzionale e finalistica, e dunque da quell'identita' di ratio che, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve connotare le singole disposizioni di un decreto-legge dal contenuto oggettivamente e materialmente eterogeneo (cfr., oltre alla sentenza n. 22 del 2012, avente ad oggetto addirittura un decreto c.d. «milleproroghe», per definizione caratterizzato da contenuto eterogeneo, l'ordinanza a 34 del 2013, e la sentenza n. 32 del 2014). Infatti, come si e' anticipato nel paragrafo precedente, il capo I prevede disposizioni concernenti il conferimento di poteri speciali al Ministro dell'interno per limitare o vietare l'accesso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica, nonche' la previsione di' sanzioni amministrative, anche a carattere reale quale la confisca della nave, nei confronti del comandante della stessa che non ottemperi al divieto (articoli 1 e 2); l'ampliamento delle attribuzioni della Procura distrettuale in materia di associazioni finalizzate alla commissione di alcuni delitti in materia di immigrazione clandestina (art. 3); l'incremento dei fondi per le operazioni di polizia sotto copertura (art. 4); la modifica delle modalita' di comunicazione alle questure del nominativo delle persone alloggiate da parte dei titolari di strutture ricettive (art. 5); la previsione di nuovi reati, ovvero di nuove circostanze aggravanti o modifiche della pena edittale, volte complessivamente ad inasprire il trattamento sanzionatorio previsto per condotte lato sensu violente commesse in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico (articoli 6 e 7). Le disposizioni inserite nel capo II invece prevedono: l'assunzione straordinaria di personale del Ministero della giustizia per rafforzare gli organici del personale deputato all'esecuzione delle sentenze di condanna (art. 8); la proroga di alcuni termini per l'attuazione della normativa inerente alla protezione dei dati personali e in tema di intercettazioni (art. 9); l'assunzione di nuovo personale per l'operazione «Strade sicure» in occasione delle Universiadi di Napoli (art. 10); l'estensione di alcune agevolazioni in materia di soggiorno di breve durata, previste dalla legge n. 68 del 2007 in favore di stranieri che giungono in Italia per visite, affari, turismo e studio, anche alle ipotesi correlate alla partecipazione di atleti e gare sportive (art. 11); l'istituzione di un fondo destinato a finanziare interventi di cooperazione allo sviluppo nei confronti di Paesi terzi, ovvero intese bilaterali, con finalita' premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione (art. 12). Infine, come pure si e' detto, al capo III sono previste alcune disposizioni volte ad inasprire il trattamento, amministrativo e penale, delle condotte di violenza commesse in occasione di manifestazioni sportive: in tale ambito si' inseriscono le novelle, di cui si e' detto, concernenti il DASPO (art. 13), il fermo di indiziato di delitto (art. 14), l'arresto differito (art. 15), la nuova circostanza aggravante comune di cui all'art. 61, n. 11-septies) c.p. e la non applicabilita' dell'art. 131-bis ai piu' gravi reati commessi «in occasione o a causa di manifestazioni sportive» (art. 16), l'ampliamento del novero delle condotte di bagarinaggio cui si applica la speciale normativa amministrativa sanzionatoria (art. 17). Si tratta, dunque, di un intervento normativa ad amplissimo spettro, riconducibile a tre macro-materie tra loro radicalmente eterogenee, che non appaiono accomunate da alcuna unitaria finalita' di intervento; ne' appare in alcun modo ipotizzabile la sussistenza di un'unitarieta' di ratio che possa accomunare disposizioni cosi' diversificate in materia di: immigrazione clandestina, reati commessi in luoghi pubblici o aperti al pubblico, proroga dei termini per l'attuazione del codice della privacy, disposizioni concernenti condotte violente commesse in occasione di manifestazioni sportive, etc.; disposizioni concernenti l'organizzazione delle Universiadi di Napoli; e cio' si riflette, inevitabilmente, e a fortiori, sulla norma in questa sede censurata, in quanto quest'ultima non appare contenutisticamente legata a nessuna delle tre macro-materie in cui si articola il provvedimento. Tali osservazioni valgono ancor piu' in relazione alla disposizione in questa sede censurata. Sul punto va infatti ulteriormente ribadito e specificato quanto gia' evidenziato in precedenza, e cioe' che la norma in questione costituisce un'innovazione «a regime» della causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale incidente in modo radicale sui relativi presupposti applicativi; che essa non presenta - come si e' gia' osservato - alcun legame contenutistico e/o finalistico con le altre (invero gia' tra loro eterogenee) materie disciplinate dal decreto; che la sua introduzione non era legata ad alcuna specifica contingenza storica e sociale tale da richiedere un urgente intervento normativo. Per tali ragioni, l'inserimento di tale disposizione in un decreto-legge non puo' ritenersi costituzionalmente legittimo, non essendo stato reso necessario da quell'«esigenza da' approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a creare» (ancora, sentenza n. 22 del 2012) che, ai sensi dell'art. 77 della Costituzione e secondo la giurisprudenza costituzionale, giustifica il ricorso alla decretazione d'urgenza da parte del Governo. D'altronde, ulteriore indice dell'insussistenza di tali presupposti e' costituito dall'assenza, nel titolo e nel preambolo del decreto-legge, di ogni riferimento all'art. 131-bis codice penale o all'art. 337 c.p. D'altro canto, pur a voler ritenere diversamente e dunque a voler ipotizzare la sussistenza in relazione alla novella dell'art. 131-bis codice penale di un autonomo «caso» straordinario di necessita' ed urgenza che legittimava il Governo ad intervenire con lo strumento del decreto-legge, il vizio di cui all'art. 77, comma 2, della Costituzione non potrebbe comunque ritenersi escluso: ed infatti - in disparte ogni pur possibile considerazione circa la sussistenza di tale medesimo requisito in relazione alle ulteriori ed eterogenee materie oggetto del decreto, sopra brevemente illustrate - si tratterebbe comunque di un "caso" di necessita' ed urgenza autonomo e del tutto distinto da quelli ipotizzabili per le altre materie contenute nel decreto (immigrazione clandestina, reati commessi in occasione di manifestazioni sportive); mentre al contrario - come si e' accennato in precedenza - per ormai consolidata giurisprudenza costituzionale uno e singolo deve essere il "caso" di necessita' e urgenza sotteso a ciascun decreto-legge, atteso che «La scomposizione atomistica della condizione di validita' prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo mente ed il 'caso' che lo ha reso necessario» (sentenza n. 22 del 2012). Il provvedimento in questione, dunque, non risponde ad alcuno dei presupposti di legittimita' delineati dalla Corte costituzionale, non potendosi in alcun modo considerare, per le ragioni sin qui addotte, 'un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno', ma appare, piuttosto, come 'una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualita' temporale'. In definitiva, la radicale eterogeneita' contenutistica tra la disposizione censurata rispetto a altre materie (pur tra esse quanto mai eterogenee) oggetto di regolamentazione, l'assenza di una ratio unitaria che riconduca ad unita' funzionale i diversi ambiti di intervento, la circostanza che la norma censurata sottenda una modifica «a regime» di una causa di non punibilita' di generale applicazione, l'assenza di ogni contingenza fattuale e storico-sociale che giustificasse l'urgente necessita' di provvedere, rendono evidente l'assenza dei presupposti normativi richiesti dall'art. 77 della Costituzione per il legittimo esercizio, senza delega, del potere di decretazione da parte del Governo. 3.2. Violazione degli articoli 3, 25, comma 2, 27, comuni 1 e 3 Cost. Ritiene altresi' il Tribunale che la presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa nel caso di delitto di resistenza commesso nei confronti di un pubblico ufficiale, prevista dall'art. 131-bis, comma 2, codice penale, sia contraria ai principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita' (art. 3 Cost.), di responsabilita' per il fatto e personalita' della responsabilita' penale (articoli 25, comma 2 e 27, comma 1, Cost.) e della finalita' rieducativa della pena (art. 27, comma 3 Cost.). Al solo fine di rendere piu' agevole l'esposizione dei dubbi di legittimita' costituzionale nutriti da questo Giudice, appare opportuno premettere qualche breve considerazione sulla figura della particolare tenuita' del fatto. Com'e' noto, con l'introduzione dell'art. 131-bis del codice penale ad opera del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, emanato in attuazione della delega contenuta nella legge 28 aprile 2014, n. 67, il legislatore ha finalmente introdotto nel sistema penale comune italiano una disciplina, invero sollecitata da decenni dalla dottrina penalistica, delle c.d. microviolazioni non autonome. La soluzione dommatica prescelta dal legislatore delegante e da quello delegato e' stata l'introduzione di una causa generale di non punibilita' (su tale pacifica natura giuridica cfr. Cassazione pen., Sez. un., sentenza n. 13681/16, Tushaj, nonche' Corte costituzionale, sentenza n. 207 del 2017). Si tratta di una norma di parte generale che, combinata di volta in volta con le singole fattispecie criminose, delinea la fisionomia dell'illecito bagatellare non punibile, vale a dire quel fatto-reato che - mutuando delle efficaci espressioni impiegate dalla dottrina penalistica tedesca - pur essendo in astratto 'meritevole di pena' (strafwürdig) in quanto offensivo di un bene giuridico meritevole di tutela penale, per l'esiguita' dell'offesa ad esso in concreto arrecata e del grado di responsabilita' individuale, non ne e' in concreto 'bisognoso' (strafbedürfig) - rectius, non e' bisognoso di una pena, come quella delineata dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, orientata alla rieducazione, e non alla mera retribuzione. La rinuncia dell'ordinamento all'applicazione di una pena per fatti di scarsa gravita' costituisce dunque l'attuazione dei principi, di rango costituzionale, di sussidiarieta' (o extrema ratio) del diritto penale e di proporzionalita', inteso nella sua componente tripartita della idoneita' (Geeignetheit), della necessita' (Erforderlichkeit) e della proporzione in senso stretto (Verhältnismäßigkeit im engeren Sinne), intimamente connessi, come meglio si tentera' di porre in evidenza, ai principi di responsabilita' per il fatto (art. 25, comma 2, Cost.), di personalita' della responsabilita' penale (art. 27, comma 1, Cost.) e a quello rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.). Come gia' anticipato in punto di rilevanza della questione, il legislatore ha tracciato il campo applicativo della causa di non punibilita' in esame ancorando il suo riconoscimento a tre distinte condizioni, tra loro cumulative (art. 131-bis, comma 1 c.p.): 1) che si tratti di reato punito con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla prima; 2) che l'offesa sia di particolare tenuita', tenuto conto della gravita' del danno o del pericolo e delle modalita' della condotta; 3) che il comportamento non sia abituale. La valutazione legislativa circa la particolare tenuita' del fatto e' dunque fondata su tre criteri quantitativo-qualitativi di selezione dell'illecito penale bagatellare: il primo e' di natura astratta, in quanto agganciato all'entita' della pena detentiva massima comminata; il secondo e il terzo sono invece di natura concreta, in quanto ancorati alla scarsa gravita' oggettiva e soggettiva dell'illecito hic et nunc considerato, desunte dagli indici-criteri della tenuita' dell'offesa (a sua volta da valutarsi in base agli indici-requisiti dell'entita' del danno o del pericolo cagionato e delle modalita' non allarmanti della condotta, id est del disvalore d'evento e del disvalore oggettivo d'azione) e della non abitualita' del comportamento (id est, dalla non pericolosita' dell'autore). Dall'analisi di tali criteri emerge dunque che il legislatore, in linea con una concezione gradualistica dell'illecito nelle sue componenti sia oggettive che soggettive, ha considerato suscettibili di essere considerati di particolare tenuita' reati appartenenti ad un'ampia ed eterogenea macro-categoria, caratterizzata esclusivamente dalla circostanza che la relativa pena detentiva edittale massima non sia superiore a cinque anni: al di sopra di tale limite vi e' una presunzione assoluta di non particolare tenuita' del fatto, che la Corte costituzionale ha gia' avuto modo di ritenere di per se' non irragionevole (sentenza n. 207 del 2017). Al di sotto di tale limite, invece, qualsiasi reato puo' essere considerato in concreto di particolare tenuita', ove il fatto storico conforme alla fattispecie incriminatrice sia caratterizzato dagli indici-criteri della tenuita' dell'offesa e della non abituanti del comportamento, la cui ricorrenza va di conseguenza accertata, di volta in volta, dal giudice mediante una «valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze», dal momento che «...non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica. E' la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore», di talche' al di sotto del limite di pena detentiva massima di cinque anni «non si da' tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalita' della condotta; ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l'applicazione del nuovo istituto» (in termini Cassazione pen., Sez. un., Tushaj, cit.). E' pertanto inevitabile che, nella valutazione di tali indicatori, analogamente a quanto avviene - e non a caso - in fase di commisurazione della pena, il giudice goda di un ampio margine di apprezzamento, strettamente connesso alla variegata gamma di possibili manifestazioni concrete di una medesima fattispecie di reato, fatte salve le sole presunzioni assolute di non particolare tenuita' dell'offesa previste dall'art. 131-bis, comma 2, codice penale («L'offesa non puo' essere ritenuta di particolare tenuita', ai sensi del primo comma...») e di abitualita' del comportamento, previste dal comma 3 ("Il comportamento e' abituale..."), su cui ci si e' soffermati in sede di rilevanza della questione, e su cui tra poco si tornera'. D'altronde, l'ampiezza della valutazione giurisdizionale circa la gravita' concreta del fatto di reato non puo' stupire, ma costituisce un'inevitabile conseguenza della natura gradualistica dell'illecito penale, a sua volta intrinsecamente connessa alla sua natura di illecito non soltanto formale, ma anche sostanziale, quale fatto carico di disvalore - oggettivo e soggettivo - in rapporto ai valori fondamentali dell'ordinamento: ed invero, inteso non gia' quale mera disobbedienza al comando normativo, bensi' in senso sostanziale quale offesa concreta ad un bene giuridico realizzata volontariamente o per colpa, meritevole e bisognosa di sanzione, il reato e' giocoforza un'entita' non riducibile ad un giudizio binario di mera insussistenza/sussistenza, ma al contrario un quid suscettibile di essere graduato secondo coefficienti crescenti di gravita'. In altri termini, nell'ottica sostanzialistica ed assiologicamente orientata propria del nostro ordinamento penale, la gravita' di un fatto-reato, e con essa la risposta sanzionatoria approntata dall'ordinamento, dipende, in astratto, dal grado di meritevolezza del bene giuridico tutelato e dall'astratta tipologia di elemento psicologico richiesto dalla fattispecie (elementi valutati in astratto dal legislatore, mediante la previsione di differenziate comici edittali); e, in concreto, dalla gravita' dell'offesa concreta arrecata al bene, dalle modalita' della condotta, dall'intensita' e dal grado dell'elemento psicologico, nonche' dal grado di responsabilita' colpevole del suo autore: in altri termini, dalla specificita' della concreta e irripetibile modalita' di manifestazione dell'illecito nella realta' fenomenica. Non a caso, tutti tali criteri sono espressamente previsti dall'art. 133 del codice penale quali parametri di commisurazione della pena nell'ambito della cornice edittale. Come le stesse Sezioni unite della Corte di cassazione hanno osservato citando l'insegnamento del Carrara, «nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalita' del suo concreto modo di essere nella individualita' criminosa nella quale si estrinseca; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non puo' che essere rimesso al magistrato perche' l'uomo deve essere condannato secondo la verita' e non secondo le presunzioni (Cass. pen., Sez. un., Tushaj, cit.). Cio' premesso in via generale, va rilevato che dalla macro-categoria dei reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, nel cui ambito, come si e' detto, qualsiasi reato puo' essere considerato, in concreto, di particolare tenuita', la disposizione di cui al novellato art. 131-bis, comma 2, seconda parte, esclude tout court (accanto a quelli di cui agli articoli 336 e 341-bis c.p.) il delitto di cui all'art. 337 codice penale, se commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, sul presupposto che «l'offesa» da esso cagionata «non puo'... essere ritenuta di particolare tenuita'». Tale reato viene cosi' sottoposto ad un regime sanzionatorio peculiare e del tutto eccezionale, giacche', pur trattandosi di delitto punito con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, esso e' sottratto in radice dall'ambito applicativo della particolare tenuita' del fatto: la presunzione assoluta introdotta dal legislatore fa si' che, pur ove - come nel caso di specie - esso sia caratterizzato da una scarsa offensivita' concreta, il giudice non puo' mai, ad onta di ogni evidenza fattuale contraria, ritenere l'offesa di particolare tenuita'. Non ignora il Tribunale che la configurazione dei reati e la determinazione delle sanzioni per essi previste, e cosi' anche la previsione di presunzioni assolute attinenti ad uno o piu' elementi del reato ovvero alla modulazione del trattamento sanzionatorio, rientrano, in linea di principio, nel margine di discrezionalita' politica del legislatore, insindacabile dalla Corte costituzionale in base all'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Proprio in tema di cause di non punibilita' la Corte costituzionale ha invero gia' avuto modo di chiarire che «...l'estensione di cause di non punibilita', le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che e' da riconoscersi... appartenere primariamente al legislatore» (sentenza n. 140 del 2009, nonche', piu' di recente, sentenza n. 207 del 2017). Tuttavia, anche in tali ambiti le scelte legislative devono rispettare il limite della ragionevolezza, come pure la stessa Corte costituzionale ha piu' volte ribadito [ex multis, sentenza n. 185 del 2015: «Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l'individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalita' legislativa, il cui esercizio non puo' formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimita' costituzionale, salvo che si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex multis: sentenze n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 324 del 2006)»]. Analogamente, le presunzioni assolute attinenti ad elementi del reato ovvero alla modulazione del trattamento sanzionatorio, nonche' quelle previste in ambito processuale, non possono considerarsi, di per se', incompatibili con il dettato costituzionale. Tuttavia, anche in questo caso, per costante giurisprudenza costituzionale, la discrezionalita' politica e politico-criminale del legislatore incontra l'inderogabile limite dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita', a loro volta strettamente connessi ai principi di personalita' della responsabilita' penale e della finalita' rieducativa della pena. Ed infatti, la Corte ha piu' volte ribadito che le presunzioni assolute «... specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit (sentenze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008)», specificando che «...l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 41 del 1999)» (cosi', ex multis, sentenze n. 232 e n. 233 del 2012; ma v. pure sentenze n. 182, n. 164 del 2011, n. 265 del 2010 e, da ultimo, n. 253 del 2019): in altri termini, la valutazione legislativa sottesa alla presunzione, se puo' certamente essere dettata da valutazioni politiche e politico-criminali del legislatore di natura discrezionale, in quanto tali non sindacabili, non puo' al contempo sfociare nell'arbitrio, nel senso che una siffatta valutazione deve pur sempre dimostrarsi ancorata a 'vincoli di realta', ossia possedere un radicamento empirico verificabile o falsificabile (da ultimo, particolarmente significative in tal senso appaiono le note decisioni, sia pur adottate in ambito processuale, aventi ad oggetto le presunzioni di adeguatezza di cui all'art. 275, comma 3, codice di procedura penale, n. 265 del 2010, n. 164 del 2011, n. 110 del 2012, n. 57 del 2013, nonche', in materia di c.d. ergastolo ostativo, la citata n. 253 del 2019). Ebbene, come subito piu' dettagliatamente si illustrera' facendo applicazione dei suddetti criteri direttivi tracciati dalla Corte, la presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa di cui di discorre appare a questo Giudice fondata su di una valutazione di tipo aprioristico, assoluta ed onnicomprensiva, giacche' essa e' legata esclusivamente al titolo del reato e non gia' - come nelle fattispecie presuntive gia' previste dal comma 2 dell'art. 131-bis del codice penale e nella formulazione originaria del decreto-legge n. 53/2019 - a specifiche peculiarita' dell'offesa e/o delle modalita' della condotta caratterizzanti il singolo fatto storico oggetto di vaglio giurisdizionale. Di talche', sottraendo eccezionalmente il delitto di cui all'art. 337 del codice penale dall'ambito applicativo della disciplina ordinaria approntata dal legislatore all'art. 131-bis codice penale, da un lato, sottopone tale delitto ad una disciplina irragionevolmente differenziata rispetto a quella tuttora applicabile anche per reati analoghi; dall'altro, e di conseguenza, introduce un automatismo sanzionatorio che costringe il giudice ad irrogare una pena anche in relazione a fatti che non ne sono in realta' 'bisognosi' alla luce dei criteri generali approntati, per ogni altro reato, dal medesimo legislatore, e dunque oltre la misura della responsabilita' del singolo individuo in relazione al fatto commesso; tale pena, pertanto, risulta irragionevole in quanto sproporzionata nell'an (ancor prima che nel quantum) e non puo' svolgere, di conseguenza, alcuna finalita' rieducativa, ma soltanto una funzione di riaffermazione simbolica del valore della norma violata, strumentalizzando cosi' l'individuo per finalita' di politica criminale. La norma in questa sede censurata sembra aver introdotto, in sostanza, un automatismo sanzionatorio intrinsecamente ed estrinsecamente irragionevole, e percio' contrario ai principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzione di cui all'art. 3, comma 1, della Costituzione e che, imponendo l'applicazione di una pena ad un fatto di essa non bisognoso, si pone in contrasto con gli ulteriori principi di responsabilita' per il fatto e di personalita' della responsabilita' penale di cui agli articoli 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione, nonche' con il principio della finalita' rieducativa della pena, di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione. Passando ora piu' concretamente all'esposizione delle ragioni su cui tali dubbi di legittimita' costituzionale si fondano, osserva il Tribunale quanto segue. Quanto all'irragionevolezza intrinseca, non sembra esservi innanzitutto alcuna ratio giustificatrice del regime eccezionale previsto per l'art. 337 codice penale, giacche', come si e' detto, la presunzione di non particolare tenuita' dell'offesa non e' stata ancorata (come invece era avvenuto nella formulazione originaria del decreto) a specifiche peculiarita' del fatto storico hic et nunc considerato, ma esclusivamente al titolo del reato, che viene dunque escluso 'in blocco' dall'ambito di operativita' della non particolare tenuita' del fatto, a prescindere dalle sue concrete modalita' di manifestazione. In altri termini, la presunzione in questione non e' legata ad alcun elemento del fatto come concretamente accertato in giudizio, incidente sugli ordinari indici-requisiti dell'entita' del danno o del pericolo cagionato e/o caratterizzante le modalita' della condotta, e dunque comprende anche fatti caratterizzati da offese modestissime al bene giuridico, poste in essere in situazioni concrete affatto allarmanti. Non vi e', tuttavia, alcuna valida ragione logico-giuridica in base alla quale poter ragionevolmente sostenere che l'offesa cagionata dal delitto di cui all'art. 337 codice penale, a differenza di quella prodotta da qualsiasi altro delitto egualmente punito con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni e, come subito si dira', anche di altri analoghi delitti contro la pubblica amministrazione, possa essere considerata, ex se e in astratto, in tutte le sue possibili, innumerevoli forme di manifestazione concrete, di non particolare tenuita'. La generalizzazione sottesa a tale presunzione non e' dunque ancorata ad alcun vincolo di realta', non e' supportata e giustificata da alcun criterio logico-giuridico razionale, empiricamente e/o assiologicamente fondato, oggettivamente ne' verificabile ne' falsificabile: essa risulta, percio', irragionevole e arbitraria. Al contrario, la fattispecie delittuosa di cui all'art. 337 codice penale, come peraltro testimoniato dalla sua ampia cornice edittale che va da sei mesi a cinque anni di reclusione, ben puo' assumere, in concreto, una variegata molteplicita' di forme di manifestazione e di gradi di gravita'. Per quanto piu' specificamente concerne l'offesa (intesa lato sensu, comprendendo in essa non soltanto il grado della lesione o messa in pericolo, ma anche le modalita' dell'aggressione al bene), la cui non particolare tenuita' e' presunta iuris et de iure dal legislatore, va osservato che la sua intensita' puo' variare a seconda che il delitto venga posto in essere con minaccia o con violenza, nonche' in ragione della tipologia specifica di minaccia o di violenza, che l'azione sia di breve o di lunga durata, che la condotta consti di un solo o di piu' atti, ovvero venga posta in essere in una situazione pienamente controllabile da parte del pubblico ufficiale, ovvero nel corso di eventi o interventi particolarmente delicati, che il regolare esercizio della funzione pubblica sia stato soltanto momentaneamente turbato, ovvero irrimediabilmente menomato, etc. Se, dunque, estremamente variegate sono le modalita' con cui l'offesa sottesa al delitto in esame puo' manifestarsi, non appare allora ragionevole la previsione di una presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa applicabile ad ogni possibile forma di resistenza a pubblico ufficiale; fatti di scarsissima rilevanza sono non soltanto 'agevoli da immaginare', ma quanto mai frequenti nella prassi giudiziaria. D'altra parte, proprio quello che ci occupa in questa sede rappresenta un chiaro e lampante caso 'contrario alla «generalizzazione posta a base della presunzione»', giacche' esso presenta, come si e' tentato di argomentare in punto di rilevanza della questione, tutti gli indici-requisiti richiesti in via generale dal 131-bis del codice penale per la qualificazione in termini di particolare tenuita'. E cio' nonostante esso non puo', per espresso divieto normativo, essere considerato tale. Il confronto tra tale presunzione e le altre gia' previste dal medesimo comma 2 dell'art. 131-bis codice penale, lungi dallo smentire l'irragionevolezza di tale ulteriore previsione derogatoria, sembra al contrario confermarne il fondamento. Invero, tali presunzioni appaiono strutturalmente diverse da quella in questa sede censurata, giacche' non sono caratterizzate da un'analoga assolutezza ed onnicomprensivita': esse non sono legate, infatti, al mero titolo del reato, bensi' alla peculiare macro-tipologia di offesa in concreto cagionata (morte, lesioni gravissime), ovvero alle modalita' e alle specifiche circostanze di tempo o di luogo della condotta, ovvero alla peculiare concreta condizione della persona offesa (crudelta' o sevizie, condizione di minorata difesa della persona offesa), ovvero ai motivi a delinquere (motivi abietti o futili). In altri termini, esse non comportano l'aprioristica esclusione di una singola, specifica e determinata fattispecie dall'alveo applicativo dell'istituto della non punibilita' per particolare tenuita' del fatto, tua possono attagliarsi a qualsivoglia reato o categoria di reati e sono comunque legate esattamente agli stessi paramenti (c.d. indici-requisiti), di valutazione della 'particolare tenuita' dell'offesa', di cui al comma 1: l'esiguita' del danno o del pericolo e le modalita' della condotta. Inoltre - ad eccezione delle sole ipotesi di morte e lesioni gravissime - si tratta di elementi del fatto sottesi ad altrettante circostanze aggravanti comuni previste dall'art. 61 codice penale e/o a parametri commisurativi della pena, sub specie «gravita' del reato», previsti dall'art. 133 del codice penale, come tali dunque attinenti al singolo fatto storico accertato in giudizio e non gia' alla fattispecie criminosa che astrattamente viene in rilievo. Tali presunzioni, in altri termini, sono ancorate a peculiari circostanze del fatto storico che incidono su specifici elementi dell'illecito penale, quali la tipologia, la qualita' o il grado dell'offesa, le circostanze di tempo e di luogo della condotta, l'intensita' e/o il grado dell'elemento psicologico, l'entita' della colpevolezza/responsabilita', determinandone, a giudizio del legislatore, la sua concreta (e non astratta) non particolare tenuita'. Al contrario, si ripete, la disposizione qui censurata realizza una generalizzata e indiscriminata sottrazione al regime ordinario di applicabilita' dell'art. 131-bis del codice penale di tutte le possibili forme di manifestazione del delitto di cui all'art. 337 del codice penale commesso nei confronti di pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, non supportata da alcun fondamento giustificativo razionale: la prassi giudiziaria dimostra, al contrario, la straordinaria frequenza di ipotesi contrarie alla generalizzazione posta alla base della presunzione, dovendosi pertanto ritenere che l'esclusione aprioristica della fattispecie di cui all'art. 337 del codice penale dall'ambito operativo della causa di non punibilita' della non particolare tenuita' del fatto si fonda su di una valutazione non corrispondente all'id quod plerumque accidit, e dunque intrinsecamente irragionevole, in violazione dell'art. 3 della Costituzione. Quanto ai profili di irragionevolezza estrinseca, va rilevato che la presunzione assoluta in questione si risolve innanzitutto in un eguale trattamento di situazioni eterogenee: non consentendo al Giudice di apprezzare i profili di particolare tenuita' dell'offesa pur emergenti nel caso concreto sottoposto al suo vaglio, essa rende infatti comunque punibile tale fatto, alla medesima stregua di fatti connotati da un disvalore oggettivo effettivamente superiore alla soglia della particolare tenuita' dell'offesa. Ma siffatta irragionevolezza emerge soprattutto dalla circostanza che rispetto ad altri reati, caratterizzati da identico bene giuridico tutelato e analoghe modalita' di aggressione - e che dunque sembrano poter essere correttamente elevati a tertia comparationis - risulta tuttora applicabile la causa di non punibilita' prevista dall'art. 131-bis codice penale: la disposizione censurata determina, pertanto, anche un trattamento differenziato di situazioni omogenee. Come si e' avuto modo di osservare in punto di rilevanza della questione, secondo l'interpretazione fornita dalle Sezioni unite, condivisa dal Tribunale, il delitto di cui all'art. 337 del codice penale tutela il «regolare funzionamento della pubblica amministrazione», sia pure inteso in senso lato - alla luce di una concezione organica della stessa - fino a ricomprendervi la «sicurezza e liberta' di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni» e che ne manifestano all'esterno la volonta' (ma in termini sostanzialmente analoghi si era espressa gia' la Corte costituzionale con l'ordinanza n. 425 del 1996). Cosi' definito, si tratta di un bene giuridico ad ampio spettro, comune a numerosissimi delitti contro la pubblica amministrazione, siano essi commessi dal pubblico ufficiale, siano essi commessi dai privati, moltissimi dei quali peraltro puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, e dunque rientranti nell'ambito applicativo dell'art. 131-bis codice penale (2) . Volendo rimanere nell'ambito dei delitti commessi dai «privati contro la pubblica amministrazione», di cui al capo II del titolo II del codice penale, nell'ambito dei quali rientra appunto quello di cui all'art. 337 codice penale, puo' richiamarsi in questa sede l'attenzione innanzitutto sulla fattispecie di «Interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessita'» prevista dall'art. 340 codice penale, punita con la reclusione fino a un anno nell'ipotesi base e da uno a cinque anni se il fatto e' commesso dai capi, promotori od organizzatori (comma 2). Dal punto di vista del bene giuridico si tratta di un delitto del tutto omogeneo a quello di resistenza a pubblico ufficiale (e rispetto ad esso addirittura piu' grave nell'ipotesi di cui al comma 2): invero, come nell'ipotesi prevista dall'art. 337 codice penale, anche qui la condotta del privato - sia pure a forma libera - cagiona un'indebita interruzione o un turbamento della regolarita' di un servizio o ufficio pubblico (o di un servizio di pubblica necessita'), impedendo il «regolare funzionamento della pubblica amministrazione». Ebbene, nulla osta a che, in concreto, alla luce dell'esiguita' del danno o del pericolo cagionato al bene giuridico e delle modalita' non allarmanti della condotta, il giudice qualifichi l'offesa in termini di particolare tenuita' ai sensi dell'art. 131-bis c.p. Ancora, puo' essere ulteriormente preso in considerazione il delitto di «Oltraggio a un magistrato in udienza» previsto dall'art. 343 codice penale, punito con la reclusione fino a tre anni nell'ipotesi base (comma 1), da due a cinque anni nel caso in cui l'offesa consista nell'attribuzione di un fatto determinato (comma 2), e con le medesime pene, aumentate fino a un terzo, «se il fatto e' commesso con violenza o minaccia» (comma 3). Tale delitto e' caratterizzato da una ancora piu' marcata omogeneita' rispetto a quello di cui all'art. 337 codice penale, poiche' anche in questo caso l'offesa al «regolare funzionamento della pubblica amministrazione» (nella specie, della funzione giurisdizionale) viene realizzata per mezzo dell'aggressione alla persona che per essa agisce (la figura generica del pubblico ufficiale nel caso di cui all'art. 337 del codice penale, quella specifica del magistrato nel caso di cui all'art. 343 c.p.); l'omogeneita' e' peraltro pressoche' totale nell'ipotesi di cui all'art. 343, comma 3, codice penale, caratterizzata da identiche modalita' di aggressione al bene (violenza o minaccia). Ebbene, anche in questo caso nulla osta a che, in concreto, alla luce dell'esiguita' del danno o del pericolo cagionato al bene giuridico e delle modalita' non allarmanti della condotta, il giudice qualifichi l'offesa in termini di particolare tenuita' ai sensi dell'art. 131-bis c.p. Il confronto con fattispecie analoghe, e pur tuttavia non escluse dall'ambito di operativita' dell'art. 131-bis codice penale, sembra dunque condurre a ritenere che la presunzione assoluta in questa sede censurata (oltre ad essere in se' irragionevole) si traduce in una discriminatoria disparita' di trattamento tra chi commette una violenza o minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale ascrivibile all'art. 337 codice penale (la cui offesa non puo' essere ritenuta di particolare tenuita'), e chi invece commette, egualmente mediante violenza o minaccia, un oltraggio a un magistrato in udienza (egualmente un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni), la cui offesa invece potra' essere ritenuta, in concreto, di particolare tenuita'. La disposizione in questa sede censurata, cosi, sottopone senza alcun fondamento empirico giustificativo il delitto di cui all'art. 337 del codice penale ad una disciplina differenziata e deteriore rispetto a quella ordinariamente prevista non soltanto per ogni altro reato punito con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ma anche per delitti ad esso del tutto analoghi quanto a bene giuridico tutelato e a modalita' di aggressione (tra cui, ad esempio, quelli previsti dagli articoli 340 e 343 c.p.). In definitiva, per le ragioni sin qui esposte, essa appare caratterizzata anche da un'irragionevolezza estrinseca, giacche' determina, al contempo, un irragionevole trattamento differenziato di situazioni omogenee e un irragionevole trattamento omogeneo di situazioni differenti, e percio' anche sotto tale profilo in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Chiariti i profili della ritenuta irragionevolezza intrinseca ed estrinseca, va poi ulteriormente rilevato che tale disposizione si traduce in un automatismo sanzionatorio che preclude al giudice un vaglio individualizzante del singolo e irripetibile fatto storico portato alla sua attenzione, costringendolo cosi' ad irrogare una pena sproporzionata nell'an ancor prima che nel quantum, poiche' applicata ad un fatto che, in base ai criteri generali fissati dal medesimo legislatore, non ne e' invece `bisognoso': cio', come si e' anticipato in premessa, determina una violazione non soltanto del principio di uguaglianza, sub specie ragionevolezza e proporzione, ma anche dei principi di responsabilita' per il fatto, di personalita' della responsabilita' penale e della finalita' rieducativa della pena di cui rispettivamente agli articoli 25, comma 2 e 27, commi 1 e 3, della Costituzione. Infatti, l'individualizzazione del trattamento sanzionatorio costituisce evidente attuazione del «mandato costituzionale di "personalita'" della responsabilita' penale di cui all'art. 27, primo comma, Cost.» (Corte cost., sentenza n. 222 del 2018); al contempo, «...una pena non proporzionata alla gravita' del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa» (Corte cost., ult. cit.; ma v. gia', ex multis, sentenza n. 236 del 2016 e n. 68 del 2012). E come ormai da tempo la Corte, superando la concezione c.d. polifunzionale della pena, ha inequivocabilmente affermato, il rispetto della finalita' rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione, implica e al contempo impone un «"principio di proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra» e, «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (Corte cost., sentenza n. 313 del 1990). Il rispetto di tali principi, dunque, impone la necessita' di calibrare specie e durata della sanzione, sia in sede normativa sia in sede applicativa, alle reali necessita' rieducative del soggetto destinatario della stessa, il quale, per poter scegliere di aderire al programma di trattamento offerto, deve poter innanzitutto avvertite la pena inflitta come 'giusta', e non gia' come una inutile sofferenza senza scopo. Come, da ultimo, la giurisprudenza costituzionale ha vigorosamente rimarcato «...allorche' le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravita' del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, giacche' una pena non proporzionata alla gravita' del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994). I principi di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione «esigono di contenere la privazione della liberta' e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» (sentenza n. 179 del 2017) in vista del «Progressivo reinserimento armonico della persona nella societa', che costituisce l'essenza della finalita' rieducativa» della pena (da ultimo, sentenza n. 149 del 2018). Al raggiungimento di tale impegnativo obiettivo posto dai principi costituzionali e' di ostacolo l'espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravita' del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere» (sentenza n. 40 del 2019; v., da ultimo, sentenza n. 102/2020). Ma, a ben vedere, l'ineludibile esigenza di proporzione, se deve caratterizzare il rapporto tra entita' della pena comminata e irrogata, da un lato, e la gravita' del fatto (anche in rapporto al suo autore), dall'altro, non puo' che imporsi ugualmente, ed a fortiori, allorche', come nel caso di specie, venga in rilievo non gia' il quantum, ma addirittura e in radice l'an della sanzione penale, ricomprendendo cioe' i casi in cui ad essere sproporzionata non sia l'entita' della pena, bensi' il fatto stesso della sua applicazione: invero, come da tempo la stessa Corte costituzionale ha inequivocabilmente affermato «Il principio di proporzionalita' [va] inteso non soltanto quale proporzione tra gravita' del fatto e sanzione penale bensi', anche e soprattutto, quale 'criterio generale' di congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalita' da perseguire» (Corte cost., sentenza n. 487 del 1989); e cio' «equivale a negare legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni (sentenza n. 409 del 1989). Ebbene, l'applicazione di una pena, anche minima, ad un illecito considerato di particolare tenuita' alla luce dei criteri previsti dallo stesso ordinamento, e dunque di essa non bisognoso, costituisce una reazione sproporzionata dell'ordinamento, che sacrifica e banalizza la liberta' personale dell'individuo, dichiarata «inviolabile» dall'art. 13 della Costituzione, a fronte di fatti che non dimostrano alcun reale bisogno di pena: la sua inflizione realizza, pertanto, un ingiustificato, inutile e intollerabile sacrificio della liberta' personale, in violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita', di personalita' della responsabilita' penale e di rieducazione, oltre che di sussidiarieta' del diritto penale o extrema ratio, il quale esige che la sanzione piu' grave di cui l'ordinamento dispone sia attivata esclusivamente in relazione a fatti realmente bisognosi di pena, in mancanza di strumenti alternativi di tutela (cfr., per tutte, la sentenza n. 364 del 1988). Piuttosto, l'applicazione di una pena sproporzionata in se' in quanto non necessaria per il perseguimento delle finalita' di risocializzazione di cui all'art. 27, comma 3 Cost. assume un significato eminentemente simbolico (benche' simbolici non siano affatto i risultati concreti che essa produce sulle persone 'in carne ed ossa'), essendo orientata all'esclusiva finalita' politica (piu' che politico-criminale) di rimarcare e 'significare' la prevalenza delle ragioni istituzionali connesse al regolare svolgimento della funzione amministrativa sulle garanzie individuali. La punizione del singolo che abbia commesso un fatto di resistenza a pubblico ufficiale in concreto scarsamente offensivo, e dunque non bisognoso di pena, appare invero funzionale al solo obiettivo rimarcare il 'valore' dell'istituzione e la sua (ritenuta) incondizionata preminenza sull'individuo: in questo modo viene tuttavia riproposta quell'anacronistica «concezione autoritaria e sacrale delle istituzioni», viste come un bene in se' e non gia' quale strumento al servizio del cittadino, propria dello stato etico e di altre e passate stagioni politiche, che non a caso la stessa Corte costituzionale si e' da tempo incaricata di giudicare incompatibile con l'assetto di valori sotteso alla Costituzione, affermando che essa «...e' estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e societa' non e' un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima» (sentenza n. 341 del 1994; ma in termini analoghi si esprimono anche le sentenze n. 140 del 98 e n. 236 del 16). La presunzione assoluta di non particolare tenuita' dell'offesa sancita per il delitto di cui all'art. 337 del codice penale si traduce dunque in una strumentalizzazione del singolo per finalita' di politica-criminale, in quanto egli viene punito non gia' poiche' il fatto-reato ha dimostrato il suo bisogno di 'rieducazione' nel senso di cui all'art. 27, comma 3, Cost., ma al solo fine di riaffermare il valore della norma violata (secondo le note cadenze della Normgeltungstheorie di' stampo funzionalistico): ma l'assegnazione alla pena della mera funzione di riaffermazione simbolica del valore della norma costituisce una violazione dei principi di responsabilita' per il fatto e di personalita' della responsabilita' penale di cui agli articoli 25, comma 2 e 27 comma 1 Cost., che esigono che ciascuno venga punito esclusivamente per (e nei limiti de) il fatto compiuto e non per finalita' ulteriori di politica criminale, oltre che, ovviamente, della finalita' rieducativa della pena, di cui all'art. 27, comma 3, Cost. In definitiva, a giudizio del Tribunale, non diversamente da quanto avviene nel caso di applicazione di una pena sproporzionata rispetto alla gravita' del fatto, anche l'applicazione di una pena sproporzionata in se' in quanto irrogata a fronte di un fatto di essa non bisognoso appare in contrasto con i principi di proporzionalita', di responsabilita' per il fatto e di personalita' della responsabilita' penale, nonche' della finalita' rieducativa della pena, profilandosi cosi' una violazione, anche sotto tale profilo, dell'art. 3 della Costituzione, nonche' degli articoli 25, comma 2 e 27, commi 1 e 3 della Costituzione. E', peraltro, appena il caso di rilevare, in conclusione, che il vizio in questa sede denunciato e', sotto tale profilo, diverso rispetto a quello in passato prospettato da altro rimettente, concernente l'impossibilita' di applicare l'art. 131-bis codice penale alla fattispecie attenuata di ricettazione di cui all'art. 648, comma 2, codice penale, risolto in senso negativo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 207 del 2017. Infatti, la declaratoria di illegittimita' costituzionale in questa sede invocata non presupporrebbe l'individuazione, da parte della Corte, di un criterio di selezione dei fatti astrattamente suscettibili di essere ritenuti di non particolare tenuita' alternativo e diverso rispetto a quello previsto dal legislatore (id est, il limite massimo di pena detentiva pari a cinque anni), ma al contrario proprio la valorizzazione di tale criterio selettivo, indebitamente compresso dalla novella in questa sede censurata mediante una clausola derogatoria manifestamente irragionevole: un'eventuale pronuncia di accoglimento, infatti, determinerebbe esclusivamente la naturale riespansione di quel criterio generale fissato dallo stesso legislatore. (1) [parola cosi' sostituita dal pubblico ministero, in luogo della precedente «rissa», all'udienza del 2 novembre 2019]. (2) Possono essere richiamate, in proposito, quali delitti puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, numerosissime fattispecie, come ad esempio: articoli 314, comma 2 (peculato d'uso), 319-quater (per chi da' o promette denaro o altra utilita'), 323 (abuso d'ufficio), 329 (rifiuto o ritardo di obbedienza commessi da un militare o da un agente della forza pubblica), 331 (interruzione di servizio di pubblica necessita' commesso dall'esercente), 337-bis (occultamento, custodia o alterazione di mezzi di trasporto), 346-bis (traffico di influenze illecite), 342 (oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario), 347 (usurpazione funzioni pubbliche), 348 (esercizio abusivo di una professione), 349 (violazione di sigilli), 351 (violazione della pubblica custodia di cose), 353 e 353-bis (turbata liberta' degli incanti e del procedimento di scelta del contraente), 355 e 356 (inadempimento di contratti di pubbliche forniture e frode) del codice penale.